Coronavirus, le interviste alle aziende: Ball Beverage Packaging

(in foto Enrico Bassi, HR Manager di Ball Beverage Packaging)

Enrico Bassi, HR Manager di Ball B. P. Italia: "Questa esperienza ci lascerà dei modi di vivere e lavorare diversi. Un’attenzione nuova per la sicurezza delle persone che lavorano con noi"

Continuano le nostre chiacchierate con le aziende, per scoprire come stanno facendo fronte all’emergenza coronavirus. Oggi ospitiamo Ball Beverage Packaging Italia, filiale italiana della multinazionale Ball Corporation, leader nel settore imballaggi in alluminio per alimentipresente in Europa, negli Stati Uniti, in America Latina, Asia e Medio Oriente.
Nel mondo Ball ha 120 stabilimenti e 18.500 dipendenti, con una produzione su ciclo continuo, 7 giorni su 7. Nel settore “Beverage” ha 70 stabilimenti e 12.000 dipendenti.
In Italia l’azienda conta più di 160 dipendenti tra stabilimento produttivo e uffici.

Le tipologie di prodotti su cui si concentra il business di Ball Corporation sono gli imballaggi per bevande, e tra i clienti più importanti dell’azienda ci sono Coca Cola, Red Bull, Pepsi, Carlsberg, Heineken, Nestlé, Unilever, P&G e L’Oréal.
In Europa è leader nel business della produzione di lattine per bevande, producendo però anche contenitori per areosol & spray.

Abbiamo chiesto a Enrico Bassi, HR Manager di Ball Beverage Packaging Italia, di raccontarci cosa sta facendo la sua azienda, la quale, essendo ricompresa tra quelle considerate “essenziali” dal decreto del 22 marzo, non può fermarsi, ma deve andare avanti nel rispetto delle misure di sicurezza per i lavoratori, con tutte le difficoltà del caso.

Enrico Bassi, come vi siete organizzati in Ball per affrontare la situazione?

«In questo momento di emergenza nazionale e mondiale noi rimaniamo aperti, essendo una filiera di più aziende di bevande, per fare qualche nome, tra i nostri clienti ci sono ad esempio Coca Cola, San Pellegrino, Peroni. La produzione continua e lo staff di sede è in smart working. Tutti i nostri sforzi si stanno concentrando in primis nella tutela dei lavoratori, e secondariamente nel mantenere la produzione attiva.
Il periodo è molto particolare, le scorse settimane abbiamo preso accordi con le rappresentanze sindacali, ci sono state reazioni dimostrative degli operai, soprattutto nella provincia di Verona.

Non nascondo che il susseguirsi dei decreti ha creato un iniziale disorientamento circa le misure da adottare, facendo sì che le aziende non fossero preparate. Questo ha creato delle tensioni con le rappresentanze sindacali, anche da noi. Nella prima settimana siamo diventati quasi un’“unità di crisi”. Ci sono stati dei giorni in cui l’unico argomento preso in considerazione riguardava le azioni da adottare per ottemperare alle misure previste dall’ultimo DPCM. 

Sullo sfondo, la preoccupazione degli operai, che per alcuni è sfociata in panico. Il panico non lo controlli con gli accordi sindacali, che pure abbiamo fatto. Il panico puoi contenerlo, ma è difficile. Alcuni hanno comunicato “malattia”, altri si sono “auto-isolati” anche se non ve ne era motivo oggettivo.

Durante queste settimane abbiamo imparato a conoscere nuovi strumenti di lavoro, disinfettanti e mascherine, con qualche criticità riguardo a queste ultime per vari motivi, perché a livello europeo c’era grande richiesta da parte di tutti gli stabilimenti, sul mercato le mascherine non erano presenti; inoltre inizialmente su questo tema, come ho accennato poc’anzi, non c’era molta chiarezza in relazione ai vari decreti e al protocollo per la sicurezza. Comunque, ormai già da tempo, tutto il personale ne è fornito.

Abbiamo iniziato a conoscere modalità organizzative diverse, una fra tutte lo smart working, del quale la comunità HR si è fatta alfiere, declamandone i benefici. Modalità di svolgimento dell’attività lavorativa che però ha presentato, e presenta, anche delle criticità, perché siamo stati costretti a implementarlo in maniera massiva da un giorno all’altro. Un giorno eravamo in ufficio e il giorno dopo eravamo tutti a casa in smart working. 

Ciò ha significato dotare il personale di computer portatili, chiedere gli accessi ai server, ma soprattutto ripensare le modalità organizzative dei team. Con riferimento soprattutto a quei team come HR, Finance, Customer fulfillment, che sono abituati a gestirsi in presenza, ad avere meeting e contatti dal vivo, mentre utilizzare lo smart working in modo massivo per 5 giorni alla settimana vuol dire chiaramente perdere una parte importantissima – soprattutto per chi lavora nelle risorse umane – che è quella del contatto live con le persone. Nonostante questo, lo abbiamo fatto, ci crediamo, ed è necessario in questo momento».

Secondo lei cosa sta insegnando questa esperienza al mondo del lavoro?

«Quando finirà, questa esperienza ci lascerà dei modi di vivere e lavorare diversi, la consapevolezza che si può lavorare in modo nuovo, in smart working ad esempio, che bisogna fare di tutto per la sicurezza delle persone con cui lavoriamo, anche se questo comporta delle rinunce e ripensare le modalità organizzative. Non dobbiamo dimenticare che le aziende sono comunità di persone, quindi come tali devono basarsi su regole che prevedono prime fra tutte il rispetto e la tutela dei loro appartenenti.

Il mio desiderio è quello di rimettere al centro le persone che lavorano insieme a noi, che lavorano per noi, perché, non è banale, l’industria 4.0, le nuove tecnologie, i nuovi strumenti partono e finiscono tutti con l’uomo. In mezzo al cerchio in cui ci sono le tecnologie, la produzione, la globalizzazione, tutte le parole che abbiamo imparato a dire in questi anni, ecco al centro di questo cerchio c’è sempre l’uomo, oggi come 2.000 anni fa».

 

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