L’azienda, che nel 2018 aveva avviato il primo progetto pilota sul lavoro da remoto, si avvia ora alla fase di normalizzazione
Dall’avvio nel 2018 del primo progetto pilota, all’improvvisa accelerata del 2020, che ha permesso di rilevare in tempi brevi pregi e criticità del lavoro da remoto “di massa”.
È il percorso di Carel, che oggi anche grazie a quell’esperienza ha trovato nuovi equilibri, nuove soluzioni e anche nuovi obiettivi, soprattutto per quanto riguarda la value proposition. Ne parliamo con Carlo Vanin, Group Chief HR&Organization Officer di Carel.
«Il nostro percorso» spiega Vanin «inizia alla fine del 2016 e nasce da una riflessione: da un lato stavamo assistendo ad un turnover in uscita in costante ascesa, vedevamo l’inizio di una migrazione verso l’esterno e questo iniziava a preoccuparci.
Dall’altro ci rendevamo conto di avere difficoltà ad attrarre nuove risorse di valore. Da queste osservazioni e dalle valutazioni che ne sono nate abbiamo avviato nel 2018 un progetto pilota che abbiamo battezzato “change for better”».
Il progetto, di matrice HR, ha coinvolto circa 15 persone provenienti da aree diverse. La prima fase è stata di analisi ed è durata circa nove mesi. Al termine, l’azienda ha avviato la fase operativa con un action plan che prevedeva l’inserimento di circa 50 persone in smart workingÈ una nuova modalità di svolgimento dell’attività lavorativa, introdotta dalla l. 81/2017 e caratterizzata dall’assenza di precisi vincoli di orario e di luogo di lavoro per il dipendente. More parziale per alcuni mesi.
L’inizio della pandemia ha imposto una spinta inaspettata: improvvisamente, da un giorno all’altro Carel ha portato tutti i 450 impiegati in smart working totale, senza gradualità.
«Abbiamo fornito a tutti il corredo informatico» continua Vanin «abbiamo implementato alcuni strumenti nuovi per essere di supporto ai nostri dipendenti e abbiamo scoperto che sono pochissimi i ruoli impiegatizi che non possono essere svolti da remoto o comunque fuori dall’ufficio.
Fin dalle prime ricognizioni, poi, abbiamo rilevato come lo smart working fosse un formidabile strumento per la conciliazione tra lavoro e vita privata, che nella maggior parte dei casi comporta grandi benefici per il benessere del lavoratore.
Ma sono emerse fin da subito anche delle criticità: alcune legate al momento contingente, come la difficoltà di lavorare da casa in presenza di familiari e soprattutto bambini. Altre invece legate alla mancanza di socialità e all’impossibilità di separare vita e lavoro».
Da questi due ultimi punti sono nate due ulteriori riflessioni: la prima, sul diritto alla disconnessione, ha suggellato la nascita di una serie di linee guida, la seconda una rivalutazione della value proposition aziendale. Per quanto riguarda le disconnection guidelines, si tratta esattamente di linee guida: «niente di coercitivo» sottolinea Vanin «perché il rischio è quello di ledere il diritto alla flessibilità».
In linea generale, comunque, i dipendenti sono caldamente invitati a seguire alcune norme che spaziano dall’invio delle e-mail, alla durata delle riunioni, e che si appellano al comune buon senso.
Nel dettaglio: si consiglia di non inviare mail dopo le 18, di non disturbare i colleghi con mezzi “invadenti” come la messaggistica istantanea a tutte le ore, di rispettare le loro pause per ferie o permessi. I meeting non dovrebbero essere più di cinque al giorno, da fissare preferibilmente in fasce orarie prestabilite.
Cambia anche la durata standard delle riunioni: non più 30 e 60 minuti, ma 25 o 50, in modo tale da permettere sempre una pausa tra un incontro e l’altro.
La seconda consapevolezza acquisita riguarda il fatto che l’azienda, dice Vanin, è un «ecosistema». «Ciò che davvero incide sulla qualità del lavoro e sul benessere delle persone» spiega il manager «è la qualità delle relazioni. Oggi si parla molto di stipendio, e in un momento in cui si fatica a trovare risorse l’aspetto remunerativo è chiaramente molto importante.
Ma tutto ciò che riguarda i modelli salariali e i benefit non è davvero distintivo. Se vuoi differenziarti devi offrire un ecosistema che sia la massima espressione di inclusività, accoglienza, realizzazione personale.
Aspetti che si sono un po’ persi con il lavoro a distanza. La parte contrattuale, è importante, ma è quella che ha a che fare con le relazioni umane che caratterizza e distingue. Ed è la vera chiave per tornare ad attrarre».