L’inclusione passa anche dal linguaggio

(foto Shutterstock)

Il linguaggio che utilizziamo rende tangibile la cultura di un’organizzazione e incide su motivazione, appartenenza e partecipazione delle persone

    di Alexa Pantanella, fondatrice Diversity & Inclusion Speaking

    Ho iniziato a interessarmi al linguaggio inclusivo nel 2017, quando ancora in Italia se ne parlava poco. Mi stimolava l’idea di fare del linguaggio utilizzato nel quotidiano – durante le riunioni, le chiamate, le pause caffè, nelle email, etc – uno strumento per rendere gli ambienti di lavoro più rispettosi e inclusivi.

    In che modo? Attraverso programmi di formazione, progettati per aiutare le persone ad acquisire maggiore consapevolezza sul modo in cui usano il linguaggio. E di questo mi occupo dal 2018, in molte aziende.

    Lavorare sulla propria consapevolezza è essenziale perché, il più delle volte, non c’è volontarietà nel far sentire colleghe o colleghi esclusi. Si tratta di micro episodi (anche dette microaggressioni o microesclusioni) che avvengono in modo inconsapevole, spesso nelle migliori delle intenzioni.

    Per esempio, quando ci si trova in una riunione e una collega viene presentata come “Signora” (quando avrebbe diritto a un “Dottoressa”, avendo una laurea) e un collega come “Dottore” (che magari una laurea non ce l’ha). Nulla di clamoroso o offensivo, ma l’effetto devalorizzante e depotenziante che le persone riportano (durante i workshop che organizziamo) è un elemento di cui tenere conto, perché ha un impatto tangibile sulla qualità delle relazioni ed esperienze professionali.

    Altri esempi possono riguardare i commenti che spesso vengono fatti relativamente all’età delle persone. “Ne devi fare di strada, sei ancora un ragazzo”, “A 52 anni dove vuoi che vada”, espressioni a cui potremmo non fare caso. Ma che, invece, rischiano di reiterare idee stereotipate e senso di disagio relativamente alle diverse fasce d’età.

    Da un lato, forme di screditamento perché si è “troppo giovani” per esprimere un’opinione o assumere un ruolo di responsabilità. Dall’altro, l’idea che, passata una certa età, non si abbia più energia, voglia d’imparare, mettersi in discussione, etc. Quanto nocive possono essere queste frasi, per il senso di appartenenza e motivazione delle persone?

    Altri esempi ancora possono riguardare alcune frasi cosiddette “leggere”, delle “battute” che può capitarci di fare: “Dai, vuoi che non riusciamo a farlo?! Mica siamo handicappati!”. O ancora: “Mi segui o sei sorda?!”, oppure “Oggi mi sembro autistico”. Anche queste sono espressioni che possono sembrare innocue, a cui abbiamo fatto l’abitudine.

    Ma che idea della disabilità rischiamo di trasferire con quelle che sembrano essere delle “battute”? Certamente non dimostriamo vicinanza al tema, né di sapere realmente di cosa stiamo parlando.

    Ancor meno potremmo incoraggiare colleghe e colleghi con forme di disabilità non visibili (come un diabete, una forma di epilessia, per citarne un paio) ad aprirsi e a parlarne in ufficio, in modo da portare tutte le proprie energie sul lavoro.

    Si potrebbe sentir dire che il linguaggio non sia poi così importante, che ci sono ben altre questioni di cui ci si dovrebbe occupare.

    A questo tipo di argomenti, rispondo ricordando quanto il linguaggio che utilizziamo sia connesso al nostro pensiero e quanto costruisca la realtà intorno a noi. Non si tratta, quindi, di aspetti formali o di politicamente corretto, ma di elementi che rendono tangibile la cultura di un’organizzazione e che incidono sul senso di motivazione, appartenenza e partecipazione delle persone.

    In effetti, una persona, un gruppo o un’organizzazione può dirsi pienamente rispettosa e inclusiva se non porta avanti anche un lavoro consapevole, verticale e strutturato sul linguaggio che utilizza? A mio parere, non è un’opzione possibile.

     

    Da sempre appassionata di informazione e linguaggi, Alexa Pantanella inizia la sua esperienza professionale in alcune tra le maggiori agenzie di marketing e comunicazione, in Italia e all’estero, dove dirige un’agenzia del Gruppo Omnicom per la Francia.

    Nel 2014, rientra in Italia, come Responsabile della Comunicazione e Media in Luxottica.

    Nel 2018 fonda Diversity & Inclusion Speaking©, finalizzata a promuovere il ruolo del linguaggio come strumento d’Inclusione, attraverso programmi di formazione, iniziative di comunicazione e progetti di ricerca.

    Nel 2022, ha pubblicato Ben Detto, saggio dedicato al linguaggio inclusivo.

     

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