Il welfare è uno strumento chiave per avere dipendenti soddisfatti e guadagnare in talent attraction e retention: ce lo spiegano i relatori di IMPACT2030
A fronte di una spesa importante, che si aggira intorno ai 500 miliardi di euro l’anno e copre quasi il 30% del Pil, il welfare italiano appare ancora molto indietro: nelle modalità di erogazione, nei bisogni a cui cerca di rispondere, nella ripartizione non allineata con la domanda reale del Paese.
Non solo: nonostante l’investimento tanto corposo, c’è una quota enorme di welfare pubblico non riscosso. Si parla di circa 10 miliardi di euro messi a disposizione delle persone e rimasti inutilizzati per mancanza di richieste.
Il motivo della mancata riscossione, spesso, risiede semplicemente nella mancanza di conoscenza. Nel corso di laborability IMPACT2030, primo evento organizzato da laborability in collaborazione con Forbes, abbiamo approfondito il ruolo delle imprese nel valorizzare il welfare pubblico, gli strumenti per conoscere meglio le risorse a disposizione e come investire nel benessere dei dipendenti.
Sono intervenuti Valentino Santoni, ricercatore di Percorsi di Secondo Welfare; Moira Tonni, co-founder e COO di Blubonus Società Benefit e Marco Mantelli, co-founder e CEO Blubonus Società Benefit; Gianluca Caffaratti, owner e CEO di Happily.
La doverosa premessa è che il welfare italiano, nonostante una spesa che è superiore alla media europea, presenta numerosi punti di miglioramento.
“La spesa – spiega Valentino Santoni, ricercatore di Percorsi di Secondo Welfare – è intorno al 30% dei Pil, da dati Eurostat, quindi superiore alla media europea. Una quota importante, tuttavia la spesa è fortemente sbilanciata, anche per le caratteristiche della popolazione, verso l’ambito pensionistico, a discapito soprattutto delle famiglie. Anche la spesa per l’istruzione, comparativamente, è molto bassa. Non solo: la spesa è fortemente orientata verso i trasferimenti monetari (bonus) piuttosto che verso i servizi”.
Esistono tuttavia numerose declinazioni del “secondo welfare”, ovvero quel welfare offerto da enti non statali: si parla non solo delle imprese stesse, ma anche ad esempio degli enti bilaterali, associazioni di categoria, istituti di credito, enti religiosi, fondazioni, società di mutuo soccorso.
“Un piano di welfare ben strutturato – chiude Santoni –, immaginato per rispondere ai bisogni reali delle persone, permette di accrescere il livello di soddisfazione dei lavoratori e, quindi, migliorare nel complesso il clima aziendale. Non solo: migliora l’immagine dell’azienda, la fidelizzazione, l’attrattività. Anche dal punto di vista dello Stato, il sistema delle imprese rappresenta un attore capace di integrare e sostenere il welfare pubblico, mettendo in circolo denaro che può alimentare attività locali e il settore dei servizi alla persona/famiglia”.
Un altro problema che affligge il sistema italiano è la scarsa informazione. Lo scorso anno, ad esempio, 10 miliardi di euro messi a budget per il welfare sono rimasti nelle casse dello Stato per mancanza di richieste.
A cosa si devono queste richieste mancate?
“Nel 47% dei casi – spiegano Moira Tonni e Marco Mantelli, co-founder Blubonus – alla mancanza di conoscenza, ovvero le persone non conoscevano l’esistenza di queste risorse a cui poter accedere. Il 17% dei casi pensava di non averne diritto e il 16% non è stato in grado di presentare la domanda. Capita anche che la barriera sia anche lessicale: molti leggono che si accede all’agevolazione con ISEE sotto i 25 mila euro, e interpretano “ISEE” come reddito, quando invece c’è molta differenza”.
Questa difficoltà nel veicolare le informazioni può essere in parte supplita dalle aziende. “Valorizzare dei vantaggi previsti dallo Stato all’interno del proprio piano di welfare aziendale permette ai dipendenti di accedere a un welfare pubblico che, altrimenti, rischia di rimanere nascosto. E in più mette l’azienda nella condizione di lavorare a partire da quella base, integrando a seconda delle necessità della propria popolazione”.
Blubonus conduce un’analisi accurata per valutare a quali risorse le persone hanno diritto, aiutandole a individuare le iniziative a proprio favore. Il sistema è sempre aggiornato e avvisa gli utenti delle eventuali novità via sms, un canale diretto e – a differenza delle email – con un tasso di apertura altissimo.
Il welfare è uno strumento utilissimo anche sul fronte della retention, che negli ultimi anni si è fatto caldissimo. I dati sul tema sono ormai noti: per citare solo una delle tante indagini, secondo Pwc il 25% dei lavoratori è pronto a cambiare lavoro entro un anno. La percentuale sale al 35% tra i millennial e addirittura al 37% tra i giovani della Gen Z.
A questi dati se ne aggiunge un altro: fra i giovanissimi, la permanenza media nella stessa azienda non supera i due anni.
Il punto fondamentale, sottolinea Gianluca Caffaratti, owner e Ceo di Happily, è “il costo del turnover. Se un lavoratore ha 30 mila euro di RAL e dà le dimissioni, l’azienda ha perso circa 15 mila euro di costi vivi, reali. Poi ci sono perdite indirette: magari quella persona era importante per il team, creava equilibri positivi, aveva soft skill importanti”.
L’unico modo per agire sul fenomeno è lavorare sul benessere delle persone. “La felicità dei collaboratori – continua Caffaratti – è il cuore pulsante dell’azienda. Il primo passo fondamentale per migliorarlo è indagare quelle che in Happily abbiamo individuato come le sei aree fondamentali: conciliazione vita-lavoro, condivisione dei valori, soddisfazione economica, formazione e crescita, attenzione alla persona, attaccamento al brand”.
“Il consiglio è quello di valutare prima di tutto il clima, e poi procedere caso per caso: se una mamma vuole lavorare da casa, perché questo le permette di prendere i bambini a scuola, non c’è incentivo economico che tenga di fronte allo smart working”.
“Altre volte – conclude il ceo di Happily – ci vuole anche l’onestà e l’umiltà di rendersi conto che il lavoro è duro e non può migliorare. Allora si lavora fuori. Al lavoratore delle cave della Garfagnana non posso dire che il lavoro non è duro e usurante. Ma magari quel lavoratore ha una moglie straniera che vorrebbe imparare l’italiano, o un figlio che vorrebbe studiare al conservatorio, a cui possiamo regalare della formazione. Dobbiamo intercettare cosa può rendere le persone felici, e indirizzare lì il nostro operato”.