Dare, il più bel modo per ricevere

(foto Shutterstock)

Il primo passo è distogliere per un momento lo sguardo dal fatturato e guardare oltre. Restituire qualcosa perché è giusto farlo. Poi, senza schemi e senza modelli, tutto ritorna

Quando racconto delle iniziative portate avanti in questi anni, a volte mi chiedono perché. Perché, ad esempio, siamo diventati società benefit: perché impegnarsi in un costoso percorso che non ha portato a sgravi né accesso a fondi, ma al contrario ha richiesto un importante obbligo amministrativo. 

Perché, quindi?

Dare per restituire

La situazione è questa: hai in tasca 10 euro, ma stai bene anche con 7. Davanti a una persona che ha bisogno, che fai, non l’aiuti? Noi abbiamo fatto esattamente questo. Per dare vita a tante iniziative abbiamo rinunciato ad una piccola quota di utile. Un sacrificio” assolutamente affrontabile perché stavamo già abbastanza bene, così abbiamo restituito qualcosa alla collettività.

E restituendo, abbiamo avuto ancora più di prima. Non c’è un modello economico, nessuno schema, noi siamo soddisfatti e lavoriamo in armonia. La nostra azienda prospera perché noi tutti ci teniamo. Perché, prima di tutto, investiamo sulle persone.

Certo, non è stato sempre così. Quando mi sono affacciato al mondo del lavoro il clima era un altro e io stesso sono cresciuto in quel tipo di scuola, fatta per una società a bassa scolarizzazione e reduce di un’educazione anche familiare molto severa. Ai tempi l’ingegnere era uno e dettava la linea: era l’unica persona istruita, in grado di prendere in mano la situazione, e gli altri erano abituati ad eseguire a capo chino.

Un nuovo approccio al mondo del lavoro

Poi le cose sono cambiate: le nuove generazioni hanno iniziato ad andare avanti con gli studi, hanno iniziato ad arrivare nuove leve molto più formate, che non avevano bisogno meramente di eseguire ordini, ma di maturare un’esperienza. Avevano bisogno di knowledge condiviso.

La mia prima esperienza lavorativa, durata 8 anni, è stata pesantissima: si lavorava 12 ore al giorno, meno di così era un part time. E quello per me era il modello, l’unico. Noi impariamo per imitazione, lo facciamo da bambini e anche dopo. Se vedo che “si fa così”, imparo a fare così anch’io. Invece non c’è nulla di più sbagliato.

Dopo 8 anni sono scappato, mi sono messo in proprio, e all’inizio ho replicato anch’io quel modello. Ma è durato pochissimo, perché presto mi sono reso conto che io per primo non lo reggevo più. E tantomeno l’avrebbero retto i miei dipendenti: iniziavano a diffondersi le startup, ambienti senza schemi ma molto più accattivanti rispetto alla rigida impostazione delle nostre aziende.

Il coraggio di cambiare

Quello era già diventato il nuovo modello, che oggi si è imposto: i ragazzi non desiderano necessariamente andare a lavorare nelle grandi multinazionali, preferiscono spesso lavorare per le startup dove l’ambiente è informale e l’organizzazione è flessibile. Il mondo è cambiato e dobbiamo prenderne atto.

Cambiare non è facile, perché per natura noi siamo tutti abitudinari. Pensiamo banalmente a quando siamo costretti a cambiare la nostra strada abituale e dobbiamo percorrerne un’altra, quanto ci fa arrabbiare all’inizio. Nel mondo del lavoro, cambiare talvolta è difficilissimo perché in mezzo ci si mettono anche le normative, che non sono aggiornate e diventano di fatto un impedimento nel momento in cui vuoi fare innovazione.

Non esiste un contratto che regolamenti la settimana corta. Noi abbiamo diminuito il numero di ore alla settimana, perché non c’erano i mezzi per “regalare” un giorno ai dipendenti. Poi questa soluzione si è rivelata anche migliore, perché è più flessibile. L’abbiamo capito lentamente: all’inizio le persone erano disorientate, tutti prendevano libero il venerdì perché non sapevano bene come gestire questo tempo libero.

Poi hanno iniziato ad organizzarsi, ognuno come gli era più congeniale. Infatti, tutti i collaboratori possono godere di 8 ore libere a settimana come permesso retribuito (a parità di stipendio, benefit, MBO) utilizzabili a propria discrezione anche in modo frazionato nell’arco della settimana stessa.

Cambiare è uno sforzo epocale. Ma vale tutta la fatica, perché cambiare è l’unico modo per migliorare, passo dopo passo.

 

Leggi anche:

Carter & Benson: dalla settimana corta all’ufficio inclusivo

Carter & Benson, sì a settimana corta, «ma non parliamo di produttività»