Una sentenza del Tribunale di Milano ha dichiarato il datore responsabile di insulti e condotte umilianti messi in atto da un dipendente verso i colleghi di origine africana
I fatti riguardano tre lavoratori di una nota catena di ristorazione che hanno denunciato ripetuti attacchi razzisti da parte del responsabile del punto vendita, a causa della loro origine africana. Le accuse sono gravi: quotidiani insulti razzisti, epiteti e soprannomi offensivi, condotte umilianti. In particolare, i lavoratori sono stati obbligati a spogliarsi e a farsi spruzzare deodorante, mentre altri riprendevano la scena. Nel giudizio è stata coinvolta, oltre al collega dei lavoratori (ritenuto il materiale esecutore dei comportamenti razzisti) anche la società datrice di lavoro.
I lavoratori oggetto dei comportamenti razzisti hanno richiesto l’applicazione della disciplina speciale che li protegge da qualsiasi tipologia di discriminazione (sessuale, razziale, territoriale, religiosa, ecc) e che prevede particolari tutele per sanzionare e neutralizzare tali condotte (d.l. 215/2003 “per la parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica”).
In questo caso sono state qualificate come discriminazioni «anche le molestie ovvero quei comportamenti indesiderati, posti in essere per motivi di razza o di origine etnica, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo» (art. 2, d.l. 231/2003).
La società si è difesa dimostrando di aver adottato un regolamento aziendale in cui erano vietate e punite le condotte razziste e di essersi fatta promotrice di numerose iniziative solidali. Inoltre ha dichiarato di non aver mai avuto notizia dei fatti denunciati.
Nel corso della causa sono state raccolte le testimonianze dei colleghi, che hanno dimostrato la veridicità delle accuse. Il giudice ha definito i fatti come «chiaramente riferiti alla razza e che accostano all’etnia vari generi di offese e costituiscono, senza dubbio, comportamenti sgraditi, offensivi e umilianti». E, pertanto, possono essere qualificati come molestie.
Il Tribunale ha reputato prive di efficacia scusante le iniziative adottate dalla società, poiché non attuate nei fatti. La recidiva e la frequenza delle molestie nei confronti dei tre lavoratori secondo il Tribunale di Milano rende inoltre irrilevante il fatto che le vittime non si fossero mai lamentate con l’azienda. Anzi, secondo il Tribunale milanese, il fatto che la società non ne fosse al corrente dimostra che non si era neppure premurata di verificare quanto accadeva al ristorante.
Sulla base di tali motivazioni, con la sentenza n. 2836 del 25 gennaio 2020, il Tribunale di Milano ha dichiarato la società responsabile dei fatti commessi dal proprio dipendente nei confronti dei colleghi. Tale responsabilità fa riferimento ai seguenti articoli del Codice civile.
Secondo l’art. 2087 c.c. «l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro» (art. 2087 c.c.). Nel nostro caso, la società è stata ritenuta responsabile poiché «certamente la stessa ha contribuito a generare un ambiente lavorativo non inclusivo, di non accoglienza, respingente verso alcune persone».
Oltre a ciò, la società risponde dei fatti illeciti commessi dai propri dipendenti (quindi la condotta razzista e il danno procurato) in occasione o in funzione della propria attività lavorativa (art. 2049 c.c.).
La società è stata condannata a risarcire il danno morale subito dai lavoratori poiché si è trattato di «fatti che, certamente, non possono che lasciare traccia in qualsiasi persona di media sensibilità». Il danno è stato quantificato nella misura del 50% della retribuzione mensile moltiplicata per tutti i mesi dall’assunzione all’ultimo episodio razzista.
Inoltre, coerentemente con la disciplina speciale in materia antidiscriminatoria, la società è stata condannata «a predisporre un piano di rimozione degli effetti avente per oggetto la realizzazione di un corso obbligatorio per tutti i dipendenti che, con la partecipazione di esperti, avvicini gli stessi alle tematiche razziali al fine di educarli al doveroso rispetto di ogni cittadino quale che ne sia la sua provenienza o etnia».