Una delle figure più famose in tema di flessibilità del lavoro
Nel passato recente, il cocopro (contratto di collaborazione a progetto) ha rappresentato uno degli esempi più famosi del cosiddetto lavoro precario. Nato sotto il secondo Governo Berlusconi, il lavoro a progetto era stato ideato con l’intento di fornire una disciplina più idonea alle collaborazioni continuative.
Insomma, l’idea alla base era creare un’occasione per molte aspiranti partite IVA – spesso giovani e alle prime esperienze lavorative – di affacciarsi nel mondo del lavoro, valorizzando le proprie competenze al di fuori del tradizionale rapporto di lavoro subordinato.
Presto, però, con questo strumento molte aziende hanno cominciato a mascherare veri e propri contratti di lavoro subordinato, approfittando delle minori tutele a favore dei collaboratori che proponeva questo tipo di contratto.
In una società ancora legata a rigidi schemi produttivi, con scarsa propensione alla digitalizzazione e in cui non c’era, nemmeno in fase embrionale, alcuna sensibilità verso il lavoro ibrido, sono bastati pochi anni dall’entrata in vigore della legge e i Tribunali di tutta Italia sono stati coinvolti in contenziosi promossi dai collaboratori che chiedevano che venisse accertata la natura subordinata di un rapporto di co.co.pro.
A distanza di 20 anni dalla loro introduzione, che fine hanno fatto i co.co.pro? Nel 2023, si può ancora essere assunti “a progetto”? In questo articolo, partiremo dalla definizione di questo contratto e capiremo se esiste ancora.
È l’acronimo per contratto di collaborazione a progetto e l’articolo 61 della Legge Biagi lo definiva in questo modo:
“I rapporti di collaborazione coordinata e continuativa prevalentemente personale e senza vincolo di subordinazione devono essere riconducibili a uno o più progetti specifici determinati dal committente e gestiti autonomamente dal collaboratore. Il progetto deve essere funzionalmente collegato a un determinato risultato finale e non può consistere in una mera riproposizione dell’oggetto sociale del committente, avuto riguardo al coordinamento con l’organizzazione del committente e indipendentemente dal tempo impiegato per l’esecuzione dell’attività lavorativa. Il progetto non può comportare lo svolgimento di compiti meramente esecutivi e ripetitivi, che possono essere individuati dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale”.
Negli intenti del legislatore del 2003, questo strumento sarebbe stato utile alle aziende per poter gestire determinati progetti o processi produttivi grazie a dei collaboratori contrattualizzati proprio a tal fine.
La legge Biagi indicava con precisione i requisiti che doveva rispettare un genuino contratto di collaborazione a progetto.
Il contratto doveva essere stipulato in forma scritta e avere i seguenti requisiti:
Come anticipato, questa tipologia contrattuale è stata molto spesso utilizzata dalle aziende in violazione della normativa originaria e per poter avere più flessibilità nella cessazione del rapporto.
Tuttavia, le sanzioni previste erano pesanti e garantivano la costituzione di un rapporto di lavoro subordinato alle dipendenze del committente.
In particolare:
No, non esistono più dal 25 giugno 2015. La loro esperienza è terminata per effetto del Jobs Act, in particolare sono stati abrogati dall’articolo 52 del decreto legislativo numero 81/2015 intitolato – appunto – “Superamento del contratto a progetto” che così ha previsto:
Le disposizioni sul contratto a progetto “sono abrogate e continuano ad applicarsi esclusivamente per la regolazione dei contratti già in atto alla data di entrata in vigore del presente decreto”.
A tal fine, lo stesso legislatore ha previsto una cancellazione delle sanzioni per tutte le aziende che avessero trasformato i co.co.pro in ordinari rapporto di lavoro subordinato.
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