Partita Iva, che fine hanno fatto i cocopro?

giovani lavoratori con contratto a progetto
(foto shutterstock)

Una delle figure più famose in tema di flessibilità del lavoro

Nel passato recente, il cocopro (contratto di collaborazione a progetto) ha rappresentato uno degli esempi più famosi del cosiddetto lavoro precario. Nato sotto il secondo Governo Berlusconi, il lavoro a progetto era stato ideato con l’intento di fornire una disciplina più idonea alle collaborazioni continuative.

Insomma, l’idea alla base era creare un’occasione per molte aspiranti partite IVA – spesso giovani e alle prime esperienze lavorative – di affacciarsi nel mondo del lavoro, valorizzando le proprie competenze al di fuori del tradizionale rapporto di lavoro subordinato.

Presto, però, con questo strumento molte aziende hanno cominciato a mascherare veri e propri contratti di lavoro subordinato, approfittando delle minori tutele a favore dei collaboratori che proponeva questo tipo di contratto.

In una società ancora legata a rigidi schemi produttivi, con scarsa propensione alla digitalizzazione e in cui non c’era, nemmeno in fase embrionale, alcuna sensibilità verso il lavoro ibrido, sono bastati pochi anni dall’entrata in vigore della legge e i Tribunali di tutta Italia sono stati coinvolti in contenziosi promossi dai collaboratori che chiedevano che venisse accertata la natura subordinata di un rapporto di co.co.pro.

A distanza di 20 anni dalla loro introduzione, che fine hanno fatto i co.co.pro? Nel 2023, si può ancora essere assunti “a progetto”? In questo articolo, partiremo dalla definizione di questo contratto e capiremo se esiste ancora.

Che cosa significa cocopro?

È l’acronimo per contratto di collaborazione a progetto e l’articolo 61 della Legge Biagi lo definiva in questo modo:

“I rapporti di collaborazione coordinata e continuativa prevalentemente personale e senza vincolo di subordinazione devono essere riconducibili a uno o più progetti specifici determinati dal committente e gestiti autonomamente dal collaboratore. Il progetto deve essere funzionalmente collegato a un determinato risultato finale e non può consistere in una mera riproposizione dell’oggetto sociale del committente, avuto riguardo al coordinamento con l’organizzazione del committente e indipendentemente dal tempo impiegato per l’esecuzione dell’attività lavorativa. Il progetto non può comportare lo svolgimento di compiti meramente esecutivi e ripetitivi, che possono essere individuati dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale”.

Negli intenti del legislatore del 2003, questo strumento sarebbe stato utile alle aziende per poter gestire determinati progetti o processi produttivi grazie a dei collaboratori contrattualizzati proprio a tal fine.

Che requisiti doveva avere il progetto?

La legge Biagi indicava con precisione i requisiti che doveva rispettare un genuino contratto di collaborazione a progetto.

Il contratto doveva essere stipulato in forma scritta e avere i seguenti requisiti:

  • indicazione della durata, determinata o determinabile, della prestazione di lavoro;
  • descrizione del progetto, con individuazione del suo contenuto caratterizzante e del risultato finale che si intende conseguire;
  • il corrispettivo e i criteri per la sua determinazione, nonché i tempi e le modalità di pagamento e la disciplina dei rimborsi spese;
  • le forme di coordinamento del lavoratore a progetto al committente sulla esecuzione, anche temporale, della prestazione lavorativa, che in ogni caso non possono essere tali da pregiudicarne l’autonomia nella esecuzione dell’obbligazione lavorativa;
  • le eventuali misure per la tutela della salute e sicurezza del collaboratore a progetto.

Le sanzioni per i contratti a progetto non genuini

Come anticipato, questa tipologia contrattuale è stata molto spesso utilizzata dalle aziende in violazione della normativa originaria e per poter avere più flessibilità nella cessazione del rapporto.

Tuttavia, le sanzioni previste erano pesanti e garantivano la costituzione di un rapporto di lavoro subordinato alle dipendenze del committente.

In particolare:

  • i co.co.pro instaurati senza l’individuazione di uno specifico progetto erano considerati rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato sin dalla data di costituzione del rapporto;
  • i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, anche a progetto, erano considerati rapporti di lavoro subordinato nel caso in cui l’attività del collaboratore fosse svolta con modalità analoghe a quella svolta dai lavoratori dipendenti dell’impresa committente.

Esistono ancora i co.co.pro?

No, non esistono più dal 25 giugno 2015. La loro esperienza è terminata per effetto del Jobs Act, in particolare sono stati abrogati dall’articolo 52 del decreto legislativo numero 81/2015 intitolato – appunto – “Superamento del contratto a progetto” che così ha previsto:

Le disposizioni sul contratto a progetto “sono abrogate e continuano ad applicarsi esclusivamente per la regolazione dei contratti già in atto alla data di entrata in vigore del presente decreto”.

A tal fine, lo stesso legislatore ha previsto una cancellazione delle sanzioni per tutte le aziende che avessero trasformato i co.co.pro in ordinari rapporto di lavoro subordinato.

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