Il congedo parentale spetta anche alle coppie omosessuali, ma il sito dell’INPS non si è ancora adeguato a sufficienza ed è stato sanzionato dal Tribunale di Bergamo
Il percorso per richiedere il congedo parentaleÈ il diritto, riconosciuto in capo a entrambi i genitori, di astenersi dal lavoro facoltativamente e contemporaneamente entro i primi anni di vita del bambino. More sul sito dell’INPS è abbastanza tortuoso per il genitore non biologico di una coppia omogenitoriale, nonostante la normativa preveda che il congedo parentale sia destinato a tutti i genitori biologici e adottivi, senza alcuna distinzione, incluso l’orientamento sessuale.
Un messaggio di errore compare al genitore non biologico che prova a fare domanda, che lo obbliga quindi a intraprendere una procedura più lunga per poter ottenere il congedo parentale, situazione che invece non si verifica per chi è in una coppia eterosessuale, dove la procedura è più snella.
Una discriminazione che ha portato nel 2023 gli avvocati di Rete Lenford, che si occupano proprio di diritti lgbtqia+, con l’ausilio della Cgil, a intraprendere un’azione collettiva presso il Tribunale di Bergamo, che il 25 gennaio 2024 ha dato loro ragione e ha sanzionato l’INPS. L’ente avrà due mesi di tempo per adeguarsi, altrimenti dovrà pagare 100 euro per ogni giorno di ritardo.
Già nel 2020 un altro tribunale si era espresso sul congedo parentale alle coppie omosessuali, dopo che un datore di lavoro si era rifiutato di riconoscere il congedo parentale alla cosiddetta madre “intenzionale”, ossia la compagna della madre biologica di una bambina nata all’estero, per via di un vuoto normativo.
Il Tribunale di Milano il 12 novembre 2020 ha dato ragione alla donna e ha giudicato discriminatorio il rifiuto di congedo parentale alla madre intenzionale, pur riconoscendo il vuoto normativo. Tuttavia, essendo presenti sia l’atto di riconoscimento del figlio nascituro sia l’atto di nascita del bambino, il legame genitoriale con la madre intenzionale era attestato e il datore di lavoro avrebbe dovuto riconoscere il congedo parentale alla donna.
Pertanto, il giudice ha ordinato al datore di lavoro di cessare il comportamento discriminatorio e di concedere alla lavoratrice il godimento del congedo parentale. Con la precisazione che, mentre alla madre biologica del bambino compete il congedo parentale (art. 32, comma 1, lettera a), dl 151/2001), alla madre intenzionale va invece riconosciuto il congedo di cui alla lettera b) dello stesso articolo, ossia quello previsto per il “padre lavoratore”, perché ad oggi la legge non prevede altri casi di congedo parentale con specifico riguardo alle famiglie con genitori dello stesso sesso. Infine, dal momento che la lavoratrice, a causa del rifiuto del congedo parentale, aveva dovuto ricorrere a trenta giorni di aspettativa non retribuita per potersi prendere cura del figlio, il giudice ha anche condannato l’azienda a risarcirle il danno pari alla retribuzione non percepita in detto periodo. Contro questa decisione del Tribunale di Milano, ha fatto poi appello il datore di lavoro.
La Corte d’AppelloÈ l’organo che, nel sistema giudiziario italiano, è competente a giudicare sulle impugnazioni delle sentenze pronunciate dal Tribunale. More di Milano, con sentenza del 17 marzo 2021, ha confermato la natura discriminatoria del rifiuto di congedo parentale alla lavoratrice madre intenzionale. Inoltre, ha dichiarato discriminatorio anche il comportamento del datore di lavoro che, in via preventiva, aveva negato alla lavoratrice il diritto a godere di congedi per malattia del figlio (qualora si fosse ammalato), alle stesse condizioni di ogni altro genitore.
Nel 2022 una circolare dell’INPS ha specificato che i permessi 104 e i congedi parentali sono estesi anche ai lavoratori dipendenti del settore privato uniti civilmente, i quali potranno prestare assistenza anche ai parenti del partner, rispettando il grado di affinità previsto dalla normativa vigente.
I conviventi di fatto, invece, possono usufruire dei permessi 104 e prestare assistenza alla sola persona convivente, ma non ai parenti di quest’ultima, non essendo la “convivenza di fatto” un istituto giuridico riconosciuto, come invece lo sono l’unione civile e il matrimonio.
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