La motivazione: toni aspri e arguti sono giustificati se si critica, in modo pertinente, l’operato commerciale del destinatario
Raccontiamo un caso giudiziario che ha a che dare con diritti e doveri dei lavoratori. Condannato per diffamazione sul posto di lavoro in primo e in secondo grado, ma assolto definitivamente in Cassazione: si è conclusa così la vicenda giudiziaria di un manager di una nota compagnia di carburanti.
L’uomo aveva scritto una mail dai toni accesi a un cliente della società, mettendo in copia conoscenza anche altri destinatari. Il destinatario, offeso per il contenuto della mail e per il fatto che fosse rivolta a più persone, ha deciso di agire per vie legali.
Con la sentenza numero 31729 del 20 giugno 2023, tuttavia, la Corte di Cassazione ha ribaltato le due decisioni precedenti assolvendo il manager: non sussiste, secondo i giudici, alcuna diffamazione sul posto di lavoro.
Ma quali erano stati gli insulti rivolti dall’uomo al cliente? Il testo integrale della mail è contenuto nelle motivazioni della sentenza di Cassazione.
“La direzione da lei condotta ci conferma, purtroppo, ancora una volta la piena incompetenza a svolgere l’attività di gestione di un impianto carburanti in Italia. Purtroppo Lei e il Suo staff, con incoscienza, avete continuato imperterriti a sottovalutare i più elementari adempimenti. A partire dalla Sua conduzione della Direzione (Omissis) in Italia il nostro impianto, a voi concesso temporaneamente con fitto di azienda, ha subito una costante, ingente perdita di erogato (oltra al calo dei consumi a livello nazionale) a mio avviso determinato da una incompetenza che ha a volte rasentato l’autolesionismo“.
Il messaggio è stato inviato non solo all’amministratore delegato della società cliente, ma anche al suo presidente e vice presidente.
L’amministratore, ricevuta la mail e compreso che fosse indirizzata anche ad altri soggetti, ha dunque deciso di querelare il mittente per diffamazione sul posto di lavoro. Ma cosa significa di preciso questo termine, e cosa distingue una diffamazione da un’ingiuria?
La diffamazione è un reato previsto dall’articolo 595 del codice penale che punisce con “la reclusione fino a un anno o con la multa fino a lire diecimila” “chiunque, comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione”.
Il reato di ingiuria, d’altro canto, era previsto da un articolo del codice penale che puniva “con la reclusione fino a sei mesi o con la multa fino a euro 516” “chiunque offende l’onore o il decoro di una persona presente”, anche tramite “comunicazione telegrafica o telefonica, o con scritti o disegni, diretti alla persona offesa”.
La differenza tra ingiuria e diffamazione risiede dunque nella forma della comunicazione: se questa viene recepita anche da altre persone, si tratterà di diffamazione. Dal 2016, tuttavia, l’ingiuria non costituisce più un vero e proprio reato, e può portare solo a una sanzione pecuniaria e al risarcimento dei danni a favore della persona offesa.
Il manager accusato si è difeso sostenendo che la propria comunicazione non avesse alcun contenuto e alcuna finalità offensiva: il messaggio, ha spiegato l’uomo, era stato inviato solo per esprimere forte preoccupazione in merito alla gestione commerciale della società cliente. Si sarebbe trattato, quindi, di un semplice esercizio del proprio diritto di critica.
Il codice penale, in effetti, ritiene non punibili i comportamenti avuti avvalendosi del diritto di critica. L’articolo 51 del codice penale sancisce che “l’esercizio di un diritto o l’adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica Autorità, esclude la punibilità”. Nel caso in oggetto, il diritto esercitato sarebbe appunto quello di critica, tutelato dall’articolo 21 della Costituzione.
La Cassazione ha ribadito che il primo limite è quello della continenza, ossia “si deve tenere conto del complessivo contesto dialettico in cui si realizza la condotta e verificare se i toni utilizzati dall’agente, pur se aspri, forti e sprezzanti, non siano meramente gratuiti e immotivatamente aggressivi dell’altrui reputazione, ma siano, invece, pertinenti al tema in discussione e proporzionati al fatto narrato ed al concetto da esprimere”. In nessun caso, tuttavia, è consentito attaccare gratuitamente la persona, l’onore e il decoro del destinatario.
Per quanto riguarda la mail inviata dall’imputato, secondo la Cassazione il testo “non appare avere superato detti limiti, dal momento che le espressioni adoperate, sia pur fortemente critiche nei confronti della persona offesa, non sono scurrili né gratuitamente offensive della persona. […] Esse, piuttosto, appaiono tese a criticare la gestione di quest’ultimo della (Omissis), evidenziando quelle che, a parere dell’imputato, erano delle marcate inadempienze o inefficienze nella gestione”.
L’ulteriore circostanza di aver inviato la comunicazione anche ai vertici della società, secondo la Cassazione, “rende evidente come le critiche in essa contenute vadano contestualizzate e lette non già come un’invettiva gratuita – un argumentum ad hominem – ma come l’avvio di un aspro confronto sia con [il mittente] sia con le figure istituzionalmente preposte anche a vagliare la sua attività, attività che era al centro della segnalazione”.
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