La Cassazione esclude il diritto alla parità di stipendio tra colleghi: basta rispettare i principi di proporzionalità e sufficienza
La prima regola in tema di stipendio si trova nell’articolo 36 della Costituzione, che ti riconosce il diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro svolto, e comunque sufficiente a garantire una vita libera e dignitosa, per te e per la tua famiglia.
Lo stipendio viene stabilito prima di tutto dal contratto collettivoÈ l’accordo stipulato a livello nazionale tra i sindacati di rappresentanza dei lavoratori e dei datori di lavoro per regolare determinati aspetti dei contratti individuali di lavoro di un certo settore (es. orario di lavoro, retribuzione minima, ferie, congedi, ecc.). More di categoria, che fissa la soglia minima di retribuzione al di sotto della quale non si può scendere. Naturalmente, il contratto individuale può prevedere un importo più alto.
Se non c’è un contratto collettivo applicabile, si guarda all’accordo tra le parti. E in mancanza anche di questo, è il giudice a stabilire la retribuzione, come previsto dall’articolo 2099 del Codice civile.
Per quanto riguarda il trattamento economico, non può esserci alcuna discriminazione basata sul genere. Questo significa che né i contratti collettivi, né le aziende possono prevedere una retribuzione diversa solo perché sei un uomo o una donna. Il divieto di discriminazione è assoluto e non può essere aggirato: lo stabilisce il decreto legislativo 198 del 2006, cioè il Codice delle pari opportunità tra uomo e donna.
L’articolo 1 secondo comma afferma che la parità di trattamento e di opportunità tra donne e uomini deve essere garantita in ogni ambito, compreso il lavoro, l’occupazione e la retribuzione.
Proprio in tema di retribuzione, l’articolo 28 prevede che:
Si tratta di una delle norme che costituiscono le colonne portanti del sistema antidiscriminatorio sui luoghi di lavoro.
Se tu e i tuoi colleghi svolgete gli stessi compiti per lo stesso datore di lavoro, dovreste anche essere pagati allo stesso modo. È proprio su questo principio che si è basato un lavoratore quando ha deciso di ricorrere al Giudice del lavoro, sostenendo di aver ricevuto per 15 mesi uno stipendio inferiore rispetto a quello dei colleghi che facevano esattamente le sue stesse mansioni.
Secondo il dipendente, il trattamento retributivo era illegittimo e per questo ha chiesto che la società venisse condannata al pagamento delle differenze retributive. In pratica, ha chiesto che venisse riconosciuta e compensata la disparità di trattamento economico, in base al principio per cui a parità di lavoro deve corrispondere una parità di retribuzione.
Già in passato la Cassazione aveva chiarito che, pur rispettando il minimo retributivo stabilito dal contratto collettivo, possono esistere delle differenze di stipendio tra colleghi.
Il datore di lavoro, infatti, è libero di riconoscere ad alcuni dipendenti, ad esempio per una maggiore specializzazione, degli aumenti retributivi che non vengono attribuiti anche ai lavoratori dello stesso reparto e con gli stessi compiti.
Anche nel caso in questione, la Cassazione ha confermato questa posizione, sottolineando che i minimi retributivi previsti dai contratti collettivi si presumono adeguati ai principi costituzionali di proporzionalità e sufficienza.
Ha inoltre precisato che l’inadeguatezza di uno stipendio può essere accertata solo in base all’art. 36 della Costituzione, e non perché nel contratto collettivo sia previsto un trattamento più favorevole per altri lavoratori.
Per questo motivo, la Corte ha respinto la richiesta del dipendente, affermando che non esiste un diritto alla parità di trattamento retributivo tra colleghi e che il maggior stipendio riconosciuto a un lavoratore non attribuisce all’altro il diritto a ricevere lo stesso beneficio o un risarcimento (Ordinanza n. 8299/2019).
La Direttiva UE 970 del 2023 incide profondamente sull’intero sistema retributivo delle aziende. La Direttiva mira a rafforzare l’applicazione del principio della parità di retribuzione per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore tra uomini e donne, e del divieto di discriminazione, puntando sulla trasparenza retributiva e sul rafforzamento dei meccanismi di applicazione.
Gli Stati membri devono adottare una normativa di recepimento e applicazione entro giugno 2026.
Tra le prescrizioni di maggior impatto ci sono:
Secondo la Direttiva, a seconda della misura, gli obblighi si applicano alle aziende con più di 50, 150 o 250 dipendenti.
In linea con quanto già affermato dalla Corte di Cassazione, la Direttiva chiarisce che la nuova normativa non impedisce ai datori di lavoro di retribuire in modo diverso i lavoratori che svolgono lo stesso lavoro o un lavoro di pari valore, purché usino criteri oggettivi, neutri sotto il profilo del genere e privi di pregiudizi, come ad esempio le prestazioni o le competenze.
Mettiamo caso che più colleghi commettano un illecito o un inadempimento sul posto di lavoro. L’azienda vuole punirli tutti, ma alla fine commina sanzioni disciplinari diverse, alcune più gravi e altre meno severe. È possibile punire i lavoratori in modo diverso? La risposta è sì: il datore di lavoro può adottare sanzioni differenti anche per uno stesso fatto. L’importante è che ci sia una motivazione oggettiva e/o soggettiva alla disparità di trattamento.
Ad esempio, questi fattori possono incidere sulla diversità della sanzione:
Dunque, l’azienda non è obbligata a sanzionare tutti nello stesso modo, ma deve essere sempre in grado di giustificare la diversa misura disciplinare applicata.
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