La sentenza della Cassazione dichiara che le offese sessuali non sono semplicemente dei comportamenti maleducati
Non si riducano le offese sessuali a semplici comportamenti scorretti, maleducati e inurbani. Si tratta di comportamenti che violano diritti inviolabili dell’individuo e vanno sanzionati con la massima severità.
Con la sentenza numero 7029 del 9 marzo 2023, la Corte di Cassazione ha deciso un licenziamento intimato per gravi allusioni alla sfera sessuale di una lavoratrice. Secondo la Suprema Corte, la nozione di giusta causa va interpretata secondo la coscienza generale e i principi generali dell’ordinamento.
Pertanto “l’intrusione nella sfera sessuale” non può essere qualificata come un comportamento maleducato, “ma deve essere valutata tenendo conto della centralità che nel disegno della Carta costituzionale assumono i diritti inviolabili dell’uomo”.
Il giudizio deciso dalla Corte di Cassazione ha riguardato un caso di offese sul posto di lavoro. Un lavoratore ha preso in giro, con pesanti allusioni, una propria collega in presenza di molti altri colleghi.
In particolare, il dipendente ha rivolto alla donna, da poco tornata al lavoro dopo il parto di due gemelli, affermazioni a sfondo sessuale del tipo “ma perché sei uscita incinta pure tu?”, “ma perché non sei lesbica tu?” “e come sei uscita incinta?”. La Società, dopo la denuncia della lavoratrice, ha intimato il licenziamento del dipendente.
Il dipendente ha impugnato il licenziamento sostenendo che, ammessi i fatti di causa, la condotta sarebbe rientrata tra quelle punite esclusivamente con la sospensione dal lavoro e dunque il licenziamento sarebbe stato sproporzionato.
La Corte d’Appello ha accolto la tesi del dipendente, qualificando la condotta come “contegno inurbano e scorretto”, punita con la sola sospensione dal lavoro; ha così dichiarato l’illegittimità del provvedimento espulsivo e condannato la società a pagare venti mensilità a titolo di indennità risarcitoria.
La decisione della Cassazione affronta una prima questione relativa alla nozione di “giusta causa”. I supremi giudici hanno ribadito che “la nozione di ‘giusta causa’ di licenziamento ex art. 2119 c.c. integra una clausola generale, che richiede di essere concretizzata dall’interprete tramite valorizzazione dei fattori esterni relativi alla coscienza generale e dei principi tacitamente richiamati dalla norma”.
Questo significa che la declinazione in concreto della nozione di giusta causa al fine di valutare la gravità di una condotta può andare oltre le singole fattispecie indicate dai contratti collettivi a mero titolo esemplificativo.
Non a caso, la sentenza censura la valutazione della Corte d’Appello nella parte in cui ha ricondotto le offese e le allusioni sessuali tra i comportamenti inurbani e scorretti, puniti dal contratto collettivo solo con la sospensione dal lavoro.
Testualmente, secondo la Suprema Corte “la valutazione operata dal giudice di merito nel ricondurre a mero comportamento “inurbano” la condotta del M. non è conforme ai valori presenti nella realtà sociale ed ai principi dell’ordinamento; essa rimanda, infatti, ad un comportamento contrario soltanto alle regole della buona educazione e degli aspetti formali del vivere civile, laddove il contenuto delle espressioni usate e le ulteriori circostanze di fatto nel quale il comportamento del dipendente deve essere contestualizzato si pongono in contrasto con valori ben più pregnanti, ormai radicati nella coscienza generale ed espressione di principi generali dell’ordinamento”.
Nell’interpretazione della nozione di giusta causa in modo coerente con la “coscienza generale” e i principi generali dell’ordinamento, la Cassazione sottolinea che “costituisce innegabile portato dell’evoluzione della società negli ultimi decenni l’acquisizione della consapevolezza del rispetto che merita qualunque scelta di orientamento sessuale e del fatto che essa attiene ad una sfera intima e assolutamente riservata della persona; l’intrusione in tale sfera, effettuata peraltro con modalità di scherno e senza curarsi della presenza di terze persone, non può pertanto essere considerata secondo il “modesto” standard della violazione di regole formali di buona educazione utilizzato dal giudice del reclamo ma deve essere valutata tenendo conto della centralità che nel disegno della Carta costituzionale assumono i diritti inviolabili dell’uomo (art. 2), il riconoscimento della pari dignità sociale, “senza distinzione di sesso”, il pieno sviluppo della persona umana (art. 3), il lavoro come ambito di esplicazione della personalità dell’individuo (art. 4), oggetto di particolare tutela “in tutte le sue forme ed applicazioni” (art. 35)”.
Applicando questi principi, la Corte di Cassazione ritiene che la condotta gravemente offensiva non possa essere considerata semplicemente un comportamento maleducato o scorretto.
La Corte di legittimità, inoltre, richiama la normativa antidiscriminatoria che, all’articolo 26, definisce come ‘discriminazione’ “anche le molestie, ovvero quei comportamenti indesiderati, posti in essere per ragioni connesse al sesso, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo”.
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