L’interessante causa apre il dibattito sul confine tra il reato di calunnia e il diritto alla difesa
L’azienda avrebbe usato “violenza” per far firmare un accordo al lavoratore: è stata questa l’accusa che ha dato inizio a una bagarre giudiziaria durata 5 anni, definitivamente conclusa con la sentenza 19621 dalla Corte di Cassazione dell’11 luglio 2023.
Il giudice della Suprema Corte ha dato nuovamente ragione al lavoratore, rigettando la richiesta dell’azienda di ribaltare le sentenze precedenti che avevano già accertato l’illegittimità del licenziamento e stabilito la reintegra del lavoratore in azienda.
La causa giudiziaria che raccontiamo è stata in realtà la seconda battaglia legale che ha visto coinvolti il lavoratore e la società, oltre a essere direttamente collegata a quanto accaduto durante il primo scontro in tribunale.
In quell’occasione, infatti, l’uomo aveva accusato l’azienda di attuare differenze retributive tra i dipendenti, accusando per iscritto la società di aver ottenuto con “violenza” la sottoscrizione di un verbale di conciliazione e transazione. Una tesi inaccettabile per l’azienda, che ha ritenuto che tali accuse superassero i limiti dell’esercizio del diritto di difesa e ha quindi deciso di licenziare il lavoratore.
Secondo l’azienda, il lavoratore era consapevole di aver espresso accuse assolutamente infondate. L’uomo avrebbe quindi “falsamente accusato il proprio datore di lavoro” per “raggiungere l’obiettivo di annullamento dell’accordo economico”.
Un chiaro superamento del limite del diritto di critica e di difesa, sostengono i legali dell’azienda, sconfinato inevitabilmente nel reato di calunnia.
Ma cosa si intende di preciso per “calunnia”?
Si tratta di un reato previsto dall’articolo 368 del codice penale, che punisce con la reclusione da due a sei anni “chiunque, con denunzia, querela, richiesta o istanza […] incolpa di un reato taluno che egli sa innocente, ovvero simula a carico di lui le tracce di un reato”.
In alcuni casi, una delle due parti di un processo si trova costretta a contestare fatti e azioni che potrebbero avere anche rilevanza penale: esattamente ciò che è accaduto nel caso in oggetto.
Tuttavia, il Codice penale prende espressamente in considerazione eventualità del genere con l’obiettivo di non indebolire l’esercizio del diritto di difesa: l’articolo 598 stabilisce infatti che “non sono punibili le offese contenute negli scritti presentati o nei discorsi pronunciati dalle parti […] nei procedimenti dinanzi all’Autorità giudiziaria […] quando le offese concernono l’oggetto della causa o del ricorso amministrativo”.
La parte “accusata” di azioni offensive nel corso del giudizio è invece tutelata da una norma diversa: l’articolo 89 del codice di procedura civile stabilisce che “negli scritti presentati e nei discorsi pronunciati davanti al giudice, le parti e i loro difensori non debbono usare espressioni sconvenienti o offensive. Il giudice, in ogni stato dell’istruzione, può disporre con ordinanza che si cancellino le espressioni sconvenienti o offensive, e, con la sentenza che decide la causa, può inoltre assegnare alla persona offesa una somma a titolo di risarcimento del danno […] quando le espressioni offensive non riguardano l’oggetto della causa”.
I difensori del lavoratore hanno scelto di invocare entrambe le norme: nessuna calunnia, hanno sostenuto, ma solo un libero esercizio del diritto di difesa, sottolineando inoltre che la società avrebbe potuto chiedere la cancellazione di tali affermazioni in base all’articolo 89.
La Suprema Corte, ponendo definitivamente fine alla controversia, ha affermato che “non integra una giusta causa di licenziamento la condotta del lavoratore che attribuisca al proprio datore di lavoro, in uno scritto difensivo, atti o fatti, pur non rispondenti al vero, che riguardino in modo diretto ed immediato l’oggetto della controversia”.
Tuttavia, precisa la Cassazione, la causa di non punibilità “è applicabile anche agli atti difensivi del giudizio civile sempre che [questi] riguardino l’oggetto del giudizio in modo immediato e diretto e che siano funzionali rispetto alle argomentazioni svolte a sostegno della tesi prospettata o all’accoglimento della domanda proposta”.
Si tratta di una precisazione molto importante: la clausola di non punibilità, il già citato articolo 598, parla infatti di “offese” contenute negli atti processuali, e non di calunnie, e perché le accuse mosse non sconfinino nel reato di calunnia è necessario che, come appena illustrato, “riguardino l’oggetto del giudizio in modo immediato e diretto e siano funzionali” all’esercizio del diritto di difesa.
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