La reintegrazione è la sanzione più grave in caso di licenziamento illegittimo: vediamo come si esercita e come funziona
“Licenziamento illegittimo, lavoratore reintegrato” è una delle frasi che spesso ricorrono nelle cronache giudiziarie o nei comunicati stampa dei sindacati.
La reintegra è la sanzione prevista dal nostro ordinamento per i casi più gravi di illegittimità del licenziamento. Consiste nel diritto del dipendente di riprendere servizio nello stesso posto di lavoro occupato al momento del licenziamento.
Se il lavoratore non intende essere reintegrato, ha diritto alla indennità sostitutiva, pari a 15 mensilità. Oltre alla reintegra è prevista anche l’indennità risarcitoria, quantificata in modo diverso rispetto alla data di assunzione.
In questo articolo vedremo nel dettaglio quando si ha diritto alla reintegra, come si fa a esercitare questo diritto e se lavoratore o società possono opporsi.
La reintegra – diminutivo per “reintegrazione” – rappresenta una delle conseguenze previste nelle ipotesi dei vizi più gravi che colpiscono un licenziamento illegittimo, sia nel caso di applicazione delle tutele previste dallo Statuto dei lavoratori, sia di quelle accordate dal Jobs Act.
Significa, in concreto, che, su ordine del Tribunale, il lavoratore ha diritto a riprendere servizio all’interno dell’azienda.
Quando nasce questo diritto? La reintegrazioneÈ una delle forme di tutela del lavoratore in caso di licenziamento illegittimo e consiste nell’obbligo, a carico del datore di lavoro, di riammettere il dipendente nella posizione che occupava prima del licenziamento. More può essere disposta esclusivamente dal Giudice, quindi né il lavoratore unilateralmente, né i sindacati possono ordinarla: si tratta di una conseguenza di legge che può essere ordinata esclusivamente dall’autorità giudiziaria.
Sono le ipotesi in cui il licenziamento è gravemente viziato. Vediamo alcuni casi previsti dal legislatore.
Nella maggior parte dei casi la società è a conoscenza che il Tribunale ha disposto la reintegrazione del lavoratore.
In ogni caso, il dipendente che intende essere riammesso in servizio è obbligato a comunicare la propria decisione entro e non oltre “trenta giorni dall’invito del datore di lavoro” a riprendere servizio.
Se il dipendente non comunica la propria decisione, il rapporto è definitivamente risolto e il lavoratore ha diritto all’indennità sostitutiva.
Sì. Il legislatore ha previsto che il dipendente possa scegliere se rientrare al lavoro oppure optare per un’indennità, che viene appunto definita “indennità sostitutiva delle reintegra”.
Questa indennità corrisponde a 15 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto. Attenzione: non va confusa con l’indennità risarcitoria, che è parametrata su alcune mensilità, ma che ha una funzione diversa, ossia serve e risarcire il lavoratore per le retribuzioni perse a causa del licenziamento illegittimo.
In altri termini, in caso di licenziamento illegittimo con ordine di reintegrazione, il lavoratore ha diritto all’indennità risarcitoria e, nel caso in cui non voglia essere reintegrato, anche all’indennità sostitutiva.
No, il datore di lavoro, in seguito alla sentenza che dispone la reintegra, non può rifiutarsi di reintegrare il lavoratore.
Le sentenze, anche quelle di primo grado, sono immediatamente esecutive e dunque, anche in caso di impugnazione, devono essere ottemperate dalla società.
Nel caso in cui l’azienda non esegua l’ordine di reintegra – perché, ad esempio, confida che l’impugnazione riformi la sentenza – è comunque tenuta a corrispondere le retribuzioni a favore del lavoratore. Si rientra in una delle ipotesi in cui il datore di lavoro, rifiutando la prestazione lavorativa, è comunque tenuto a pagare lo stipendio.
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