Il report indaga le disparità retributive, le differenze nei contratti a parità di mansione e le richieste di sussidi
Le donne hanno contratti peggiori, a parità di posizione hanno redditi inferiori e lo stesso a parità di titolo di studio. Durante la pandemia hanno subito con più violenza gli effetti della crisi e il peso del lavoro di cura, dovendo ricorrere con più frequenza rispetto agli uomini ai sussidi messi a disposizione dallo Stato.
È quanto emerge dall’indagine “Lavorare dis/pari, ricerca su disparità salariale e di genere”, realizzata dall’Area Lavoro delle ACLI Nazionali, in collaborazione con il Coordinamento Donne ACLI.
La survey, realizzata nella primavera-estate del 2022, è stata condotta a partire dall’archivio del Caf Acli e del Patronato Acli e mediante un questionario composto di 34 domande, a cui hanno aderito oltre mille intervistati.
La prima parte del report riguarda gli stipendi e mette in luce che il 35% delle donne ha un reddito annuo inferiore ai 15 mila euro, mentre tra gli uomini la percentuale scende al 17%.
La fascia di reddito più “popolosa”, per le donne, è quella che va da 21 a 28 mila euro l’anno (dove si concentra il 22% del campione), mentre per gli uomini è la fascia successiva, da 28 a 50 mila euro (28% del campione). Oltre i 50 mila euro di reddito arriva solo il 3% delle donne, percentuale che sale all’8,6% fra gli uomini.
Se riduciamo il campione agli under 35, la tendenza si fa ancora più marcata: nelle fasce di reddito basse si concentra la percentuale più alta di donne, che tendono a sparire tra i redditi più alti.
Un ulteriore rilievo riguarda l’appartenenza geografica dei dichiaranti: distinguendo le diverse aree del Paese, infatti, si osserva come il divario di genere nei redditi annui sia più marcato al centro-nord e tenda, invece, a ridursi nel Mezzogiorno.
Durante la pandemia, le donne hanno patito gli effetti più duri della crisi. Nel 2021, presso il Patronato Acli le pratiche aperte per il reddito di cittadinanza sono state per il 57,5% richieste da donne. Tra le domande per reddito di emergenza, quelle arrivate da parte di donne rappresentano il 54% del totale.
Un ulteriore indicatore di fragilità delle donne nel mercato del lavoro è rappresentato dalle pratiche per la NaspiLa “Nuova Assicurazione Sociale per l’Impiego” (NASpI) è un’indennità mensile di disoccupazione, istituita in relazione agli eventi di disoccupazione involontaria che si sono verificati dal 1° maggio 2015. More, che sono state per il 61,3% femminili nel 2021. Da notare che il 67,8% dell’indennità mensile di disoccupazione dis-coll proviene da donne lavoratrici, il cui rapporto di lavoro si è, quindi, interrotto senza propria volontà.
Anche per la presentazione delle domande di Naspi il divario di genere è più sensibile nel centro-nord del Paese, mentre al sud la perdita del lavoro che ha dato luogo alla richiesta sembra un evento più distribuito tra i generi.
A completamento dell’indagine è stato realizzato anche un sondaggio online a mezzo questionario, che ha coinvolto 1.060 persone.
Il sondaggio mostra che il divario di genere rispetto ai redditi da lavoro sussiste anche tra lavoratori con caratteristiche simili, presentandosi più alto per i lavoratori e le lavoratrici stabili nel settore privato (dove i redditi delle donne risultano particolarmente bassi) rispetto al settore pubblico (circa 26 punti percentuali), dove i redditi bassi si riducono e le differenze di genere anche.
Il massimo divario si registra tra i lavoratori e le lavoratrici non standard, con un divario che supera i 30 punti percentuali.
Inoltre, a livelli più elevati di istruzione corrispondono livelli di reddito da lavoro superiori per entrambi i generi, sebbene con le dovute differenze: se, infatti, il 39% degli uomini laureati dispone di redditi superiori ai 2000 euro, ciò accade solo per il 17,7% delle donne laureate.
L’indagine ha anche evidenziato delle “zone grigie” del lavoro femminile. Ad esempio, è risultata consistente tra le donne la percentuale di lavoratrici che ha dichiarato di avere contratti per non più di 30 ore settimanali, eppure di lavorare full time (18,4% contro appena 4,7% tra gli uomini). Questa apparente contraddizione potrebbe celare un orario di lavoro prolungato in cui viene contrattualizzata solo una parte delle ore lavorate.
Un’altra questione indagata dal report e che merita una menzione è la disparità retributiva in base ai titoli di studio. Qui il limite “spartiacque” è fissato dai 1500 euro di salario. Il 66% delle laureate è sotto questa soglia, mentre fra i colleghi uomini – (che, vale la pena ricordare, statisticamente hanno prestazioni inferiori per quanto riguarda gli studi) – il 72,4% risulta sopra.
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