Scopri come i “bias inconsapevoli” possono influire sul processo di selezione e come alcune aziende hanno deciso di affrontare il problema
Almeno 10.000 euro al mese: è la perdita media stimata per le aziende che assumono il candidato sbagliato. Da tale cifra, calcolata dalla società di ricerca e selezione di personale qualificato Hunters Group, emerge chiaramente l’importanza di un processo di selezione e recruiting ben strutturato, che sia basato su criteri oggettivi e che consenta alle aziende di individuare con facilità le giuste risorse.
Sebbene nessuna impresa vorrebbe mai ammettere di aver puntato sul candidato errato, gli errori di assunzione sono più frequenti di quanto si pensi. Ma com’è possibile, nonostante i numerosi step di selezione e i vari colloqui da sostenere con diverse figure centrali, che ancora oggi le Risorse Umane rischino di ritrovarsi con candidati finali poco affini ai valori dell’azienda?
Non è certo colpa del numero insufficiente di candidati: grazie alla sempre crescente digitalizzazione, pubblicare e diffondere annunci di lavoro su tutte le piattaforme online per raggiungere un’ampia platea di utenti è diventato estremamente facile. Il problema, quindi, subentra in una fase successiva: durante il vero e proprio processo di selezione dei candidati.
Difficilmente lo ammetteremmo, eppure ne siamo colpevoli tutti, seppur in misura differente: i pregiudizi e gli stereotipi impattano le nostre azioni anche quando non ce ne rendiamo conto.
Nell’ambito delle risorse umane, i cosiddetti unconscious bias potrebbero influenzare tutte le fasi del processo di assunzione: dalla prima scrematura dei curriculum fino ai colloqui conoscitivi e alle decisioni finali.
In tutti questi step potremmo potenzialmente lasciarci guidare da idee, percezioni, sensazioni e valutazioni non oggettive, ma frutto della nostra cultura, dell’educazione e delle singole esperienze personali, finendo per valutare in maniera errata e, potenzialmente, compiere decisioni sbagliate in merito alle assunzioni.
Tra i pregiudizi inconsci più comunemente applicati vi è il cosiddetto “similarity bias”, un preconcetto innato che porta i selezionatori a prediligere involontariamente i candidati più somiglianti a loro in termini di background o interessi personali, anziché valutarne oggettivamente competenze ed esperienze. Il risultato? Un pool di candidati finali simili tra di loro, senza quelle risorse che, seppur con un percorso e una storia differenti, avrebbero potuto rivelarsi il candidato perfetto per il ruolo.
Naturalmente, gli stessi selezionatori non hanno colpe per i loro bias: nella quasi totalità dei casi si tratta di processi automatici e, dunque, inosservati e inosservabili.
Proprio per questo, riuscire a individuare i giusti strumenti per garantire maggiore equità al processo di selezione potrebbe rivelarsi estremamente difficile. Negli ultimi anni, tuttavia, molti HR hanno iniziato a utilizzare metodi e tecniche per provare, nei limiti del possibile, a ridurre bias e preconcetti e garantire pari opportunità a tutti i candidati.
Prassi molto comune negli USA ma meno usata in Italia è senz’altro l’invio di curriculum anonimi: non solo senza foto, ma anche senza alcun tipo di informazione personale o dato di contatto che potrebbe in qualche modo rivelare genere, etnia, provenienza geografica, classe sociale di appartenenza e altro.
In alternativa, molte aziende scelgono di standardizzare il processo di selezione definendo in anticipo le caratteristiche ricercate nei candidati (e il loro peso ai fini della decisione finale) o concordando in precedenza le domande, tutte uguali, da porre in fase di colloquio.
In epoca di smart workingÈ una nuova modalità di svolgimento dell’attività lavorativa, introdotta dalla l. 81/2017 e caratterizzata dall’assenza di precisi vincoli di orario e di luogo di lavoro per il dipendente. More e remote hiring, con colloqui tenuti sempre più spesso da remoto abbattendo qualunque distanza geografica, un’ulteriore tecnica anti-bias spesso utilizzata è quella della webcam spenta: concentrandosi solo sulle parole e sui racconti del candidato, ci si potrà fare un’idea più oggettiva e meno “stereotipata” sul suo potenziale.
A causa della loro natura inconscia, eliminare completamente i pregiudizi inconsapevoli dei recruiter sembra molto complesso. Sebbene le diverse soluzioni adottate possano aiutare a creare maggiore trasparenza, l’elemento fondamentale a cui prestare attenzione – e da cui lasciarsi guidare – resterà in ogni circostanza sempre lo stesso: le vere competenze del singolo candidato.
Leggi anche:
8 pregiudizi sulle donne che ne limitano la carriera
Gender gap: avvicinare le bambine all’area STEM partendo dai giochi