Comunicazione interna nell’epoca post-pandemica

img 1: “Team aziendale presenta entusiasticamente i risultati di un lavoro, ad un meeting”
(foto Shutterstock)

Come è cambiata la comunicazione interna nelle aziende e nel Terzo settore? Ne parla Carlo Assi, esperto di comunicazione interna nell’ambito del Terzo Settore

La comunicazione interna è importante per far crescere l’engagement delle persone nei luoghi di lavoro e far sì che siano sempre aggiornate su processi, novità e obiettivi di business delle aziende. Con lo sviluppo della tecnologia e le trasformazioni imposte dalla pandemia, la comunicazione interna è cambiata, e si è evoluta per affrontare un nuovo mondo del lavoro. 

A raccontare questo cambiamento è Carlo Assi, comunicatore professionale fin dall’età di vent’anni, esperto nell’utilizzo di linguaggi diversi

Carlo Assi si è misurato con attività professionali che vanno dal cartoonist alle digital PR, dal responsabile della comunicazione digitale alla comunicazione interna e ha una vasta esperienza nell’ambito del terzo settore. 

All’utilizzo delle capacità comunicative in azienda, infatti, ha affiancato un impegno associativo, dove ha riversato un approccio alla comunicazione a 360 gradi. Grazie a questa esperienza nel Terzo settore ha affinato il significato più profondo della comunicazione, che si identifica con il dialogo continuo e la connessione tra le persone.

img 2: “Carlo Assi, esperto di comunicazione interna”
(in foto Carlo Assi, esperto di comunicazione interna)

Come è evoluta la comunicazione interna in epoca post pandemica?

«La comunicazione interna è stata cambiata dallo “tsunami pandemico”. L’accelerazione forzata a digitalizzare e personalizzare alcune attività anche inerenti alla vita privata, come l’acquisto di beni o la fruizione di contenuti di intrattenimento, è andata di pari passo con l’abitudine al lavoro remoto e alla smaterializzazione dei supporti d’ufficio.

In questo scenario, la comunicazione interna ha dato un contribuito fondamentale, dapprima, con la fornitura tempestiva di contenuti informativi immediatamente fruibili, come istruzioni, indicazioni operative, declinazioni aziendali dei famosi “DPCM”, e poi, gradualmente, diventando un elemento abilitante del “new way of working”, in cui la compresenza fisica è valorizzata in maniera meno scontata che nel passato, liberando anche spazi di flessibilità e cercando nuovi equilibri tra la professione e gli altri ambiti di vita.

Questo è avvenuto anche nel campo del terzo settore che, in seguito alla crescente professionalizzazione richiesta dalle norme e all’ingresso di metodi di gestione e comunicazione digitali, è decisamente più vicino alle attività “profit” rispetto al passato per ciò che riguarda metodi operativi e approcci comunicativi».

Qual è il ruolo della comunicazione interna nel terzo settore?

«Partiamo da qualche numero. Il Terzo Settore italiano conta oltre 360.000 enti (tra associazioni, cooperative sociali e fondazioni), con oltre 870 mila dipendenti. Secondo gli ultimi dati ISTAT, inoltre, il 9% della popolazione si dedica ad attività di volontariato, per un totale di 5.500.000 persone.

Il valore economico stimato è di circa 80 miliardi di euro, pari al 5% del PIL. Questo mondo, quindi, è sempre più integrato nella filiera produttiva del Paese, soprattutto nell’ambito dei servizi alla persona. Assume grande rilevanza in rapporto alle amministrazioni pubbliche e alle aziende private, sia per i temi relativi alla responsabilità sociale d’impresa, sia per le iniziative di volontariato aziendale.

È un ambito dove, nei casi in cui si sono verificate condizioni quali l’aumento del numero degli associati, l’abbassamento dell’età dei volontari, lavoratori e dirigenti e l’innalzamento del livello di istruzione dei medesimi, le istanze e le realizzazioni legate alla contemporaneità sono entrate per restare.

Con naturalezza in alcuni ambiti, con fatica in altri. Solo un accenno: alcune realtà, a marzo 2020, hanno trasformato nell’immediato la propria operatività in “full digital”, addirittura migliorando i propri risultati nel biennio pandemico. Altre hanno semplicemente chiuso, interrompendo la propria operatività.

In questo contesto, la comunicazione diretta che partiva dai vertici nazionali delle associazioni e degli altri attori del Terzo Settore, per arrivare alle loro diramazioni, ha garantito a queste organizzazioni la possibilità di adattarsi alla nuova situazione».

Best practice: cosa funziona e cosa non funziona, dal suo punto di vista?

«Nel valutare la comunicazione interna nel Terzo Settore, possiamo partire da una constatazione non scontata: la comunicazione interna è riconosciuta come ambito distinto rispetto alla comunicazione verso l’esterno, distinta dalla formazione e spesso con persone dedicate in toto o in misura rilevante, pur nell’ambito di obiettivi definiti in maniera coerente con i fini istituzionali e, di conseguenza, coordinati con la comunicazione verso gli stakeholders esterni.

In conseguenza dello shock pandemico, anche per il Terzo settore la comunicazione interna ha dovuto rafforzarsi, puntando su chiarezza, efficacia e tempestività. Questo ha comportato un aumento considerevole dell’utilizzo dei supporti video, del tutto incomparabile con i periodi precedenti. 

In una mia ricognizione del 2022, dialogando con i responsabili comunicazione di cinque associazioni nazionali italiane, attive nei campi della salute, della valorizzazione del patrimonio artistico, del soccorso d’urgenza e della cooperazione internazionale, ho constatato come questo, assieme al più generale balzo in avanti della digitalizzazione, sia stato il risultato migliore e più duraturo.

Nell’ambito delle “migliori pratiche”, quindi, inseriamo la prontezza di adattamento e lo sviluppo di format importanti nell’uso dei video:

  • meeting su piattaforme
  • webinar
  • messaggi broadcast (rivolti al maggior numero di persone da un unico          emittente).

Con i video, il Terzo Settore ha trovato risposta  ai bisogni distinti di interazione diretta come di diffusione generalizzata di messaggi, e ha valorizzato, secondo i casi, la possibilità di interagire in contemporaneità o di fruire di contenuti in asincronicità.

Spesso, inoltre, nel Terzo settore la comunicazione interna e quella esterna, seppur distinte, sono in relazione tra loro: ciò ha contribuito a generare coerenza nella trasmissione di istruzioni, informazioni e obiettivi e, quindi, anche ad ottenere un’uniformità di reazione.

Vi sono aspetti migliorabili? Certo.

Questo passaggio, infatti,  ha comportato un vantaggio e una prova di resilienza per tutte le persone che avevano confidenza con  la tecnologia, pronte al cambiamento, disponibili a lavorare in modo diverso: in una parola, flessibili. Laddove, invece, per età, formazione, infrastrutture territoriali di tecnologia abilitante, approccio alla contemporaneità, questa crisi non si è trasformata in opportunità, si sono verificate chiusure, frustrazioni, smarrimento. In una parola: disagio.

Se dovessimo dire dove ci sia ancora margine di miglioramento, direi che proprio qui, in questo digital divide, cultural divide, age divide sta il problema più acuto. Ma questo è un problema della società italiana, prima che del Terzo Settore o dei professionisti della comunicazione.

Qui i comunicatori possono fare la differenza.

Tra i comunicatori abbondano innovatori, persone consapevoli dell’opportunità di avere linguaggi e comportamenti inclusivi e stili di vita, di business e di azione sociale sostenibili. Questa evoluzione è visibile con differenti intensità e velocità nel vasto mare della cittadinanza attiva nazionale, espressione della molteplice realtà cultuale, territoriale e anagrafica dell’Italia.

Tanto è stato fatto, insomma, e tanto resta da fare. Ma con una consapevolezza: ne siamo capaci, o possiamo diventarlo. Lo abbiamo già dimostrato».

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