Differenza tra smart working e telelavoro

Differenza tra smart working e telelavoro
(foto Shutterstock)

Spesso vengono confusi ma questi due tipi di lavoro agile hanno dei punti in comune ma anche le loro particolarità

La pandemia ha cambiato irrimediabilmente le regole del gioco, anche per quanto riguarda il mondo del lavoro. Lo smart working e il lavoro ibrido sono diventati oramai una realtà e le aziende competono tra loro nella ricerca di nuovi talenti, anche offrendo modalità di svolgimento del lavoro all’avanguardia.

La rivoluzione è stata improvvisa e i cambiamenti hanno travolto le originarie definizioni normative e contrattuali. Interpreti, HR, giornalisti parlano spesso di “smart working”, lavoro agile e telelavoro, spesso confondendo termini e definizioni, ma ci sono delle differenze che è bene sottolineare. In questo articolo cercheremo di fare chiarezza.

Che cos’è il telelavoro?

È in realtà la vera forma di lavoro agile inaugurata all’indomani della pandemia.

Al contrario dello smart working, però, questa modalità non ha una propria disciplina normativa. Trova la propria regolamentazione nell’Accordo interconfederale del 9 giugno 2004, con il quale le maggiori sigle sindacali e imprenditoriali hanno recepito la Direttive UE in materia.

Questa tipologia viene definita “una forma di organizzazione e/o di svolgimento del lavoro che si avvale delle tecnologie dell’informazione nell’ambito di un contratto o di un rapporto di lavoro, in cui l’attività lavorativa, che potrebbe anche essere svolta nei locali dell’impresa, viene regolarmente svolta al di fuori dei locali della stessa.”

Nelle premesse dell’accordo le parti hanno dato atto che tale modalità ha la finalità di “modernizzare l’organizzazione del lavoro e per i lavoratori una modalità di svolgimento della prestazione che permette di conciliare l’attività lavorativa con la vita sociale”.

Correva l’anno 2004, sindacati e associazioni datoriali avevano anticipato quello che sarebbe successo quasi vent’anni dopo. Bisognerà, infatti, attendere il 2017 prima che il Legislatore disciplini, in modo puntuale, lo smart working, che si diffonderà in modo sistematico e sistemico all’inizio della pandemia. 

Quali sono le differenze?

Nell’accordo interconfederale del 2004, con il telelavoro il dipendente svolge le proprie prestazioni “regolarmente al di fuori dei locali” dell’azienda.

Invece, per quanto riguarda lo smart working, la legge prevede una alternanza tra sede e lavoro da remoto, più precisamente “la prestazione viene eseguita, in parte all’interno di locali aziendali e in parte all’esterno senza una postazione fissa, entro i soli limiti di durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale”.

Non a caso, nei contratti individuali dei telelavoratori, la sede di lavoro è spesso ubicata presso la propria residenza, mentre la sede degli smart workers è collocata presso l’unità produttiva a cui sono addetti.

Non è un dettaglio da poco: nel caso in cui il telelavoratore sia convocato in sede – per una riunione o un appuntamento – si tratta di trasferta e come tale andrà considerata; diversamente, quando lo smart worker deve tornare fisicamente in azienda, si tratta di un normale tragitto casa-lavoro.

Quando lo smart working è telelavoro

L’esperienza di questi ultimi anni ha sostituito, di fatto, il primo con il secondo. Se da un lato il lavoro ibrido corrisponde all’idea delineata e regolamentata dal legislatore nel 2017, la modalità di full remote working è in realtà telelavoro.

Sotto questo aspetto va sgombrato il campo da un equivoco: telelavoro non significa lavorare da casa, osservando lo stesso orario del lavoro in sede. Questa è solo una delle possibili declinazioni, ma non è affatto l’unica.

Anzi, l’Accordo Interconfederale prevede espressamente che “il telelavoratore gestisce l’organizzazione del proprio tempo” e “il carico di lavoro e i livelli di prestazione del telelavoratore devono essere equivalenti a quelli dei lavoratori comparabili che svolgono attività nei locali dell’impresa”.

È la medesima disposizione ripresa, 13 anni dopo, dal decreto legislativo 81 del 2017, che prevede che l’attività si svolga “senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro entro i soli limiti di durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale”.

Le tutele in comune

I confini tra le due figure, dunque, sono molto sottili. Spesso la regolamentazione dello smart working, anche se full remote, prevede delle eventuali presenze in azienda; viceversa, è frequente che il telelavoro in realtà si riveli un lavoro domestico, ossia con orari e turni identici a quelli osservati dai colleghi in presenza.

D’altro canto è innegabile che la disciplina del primo, sia a livello normativo che contrattuale, stia sostituendo, nella prassi, il secondo, destinato probabilmente a finire in archivio, non solo dal punto terminologico.

Anche in ragione delle numerose affinità che, fino a oggi, hanno caratterizzato le due fattispecie, ad esempio:

  • la volontarietà: la disciplina ordinaria di entrambi precede che queste modalità possano essere attuate solo con l’accordo di lavoratore e azienda;
  • il divieto di qualsiasi discriminazione tra chi lavora in modalità agile e chi in presenza;
  • il diritto alla disconnessione e l’adozione di misure atte a evitare l’isolamento del dipendente;
  • l’azienda deve fornire i dispositivi informatici per rendere la prestazione e deve informare il collaboratore sui rischi per la sicurezza del lavoro da remoto.

 

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