Una sentenza recente della Cassazione dichiara che senza convalida il rapporto rimane efficace e l’azienda deve pagare le retribuzioni alla lavoratrice
Secondo la Corte di Cassazione, le dimissioni della lavoratrice madre devono essere sempre convalidate anche dopo la fine del periodo protetto. È questo il principio di diritto espresso con la recente sentenza numero 5598 del 23 febbraio 2023. Solo in questo modo, secondo i giudici, è possibile garantire piena tutela e genuinità alle dimissioni della lavoratrice madre.
Una lavoratrice si dimette durante il periodo protetto di gravidanza. Tuttavia le dimissioni non vengono mai convalidate presso l’Ispettorato del Lavoro. Successivamente, la donna percepisce la disoccupazione e trova un altro lavoro. Ciò nonostante, a distanza di anni, chiede all’ex datrice di lavoro le differenze retributive sostenendo che il rapporto di lavoro non sarebbe mai cessato.
Il motivo? L’omessa convalidaDichiarazione o conferma di validità compiuta da un organo superiore o di controllo. More avrebbe reso inefficaci le dimissioniL’atto unilaterale con cui il lavoratore comunica di voler interrompere il rapporto lavorativo con il datore di lavoro. More, con la naturale conseguenza che il rapporto non sarebbe mai cessato e la lavoratrice avrebbe avuto diritto alle retribuzioni così maturate.
Le lavoratrici godono di una speciale tutela in caso di gravidanza. La disciplina è contenuta nel decreto legislativo numero 151 del 200, il Testo Unico in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità.
Le tutele previste dal legislatore coprono tutti gli ambiti del rapporto di lavoro: dal divieto di licenziamento ai congedi e permessi, dal divieto di discriminazione all’astensione dal lavoro.
Anche le dimissioni della lavoratrice sono specificamente regolate. L’articolo 55, nella sua attuale formulazione, prevede che la richiesta di dimissioni presentate dalla lavoratrice, durante il periodo di gravidanza, e dalla lavoratrice o dal lavoratore durante i primi tre anni di vita del bambino, devono essere convalidate dall’Ispettorato del Lavoro.
L’efficacia della risoluzione del rapporto è sospensivamente condizionata a tale convalida. Con questa previsione il legislatore vuole garantire l’effettiva genuinità delle dimissioni della lavoratrice per impedire il fenomeno delle “dimissioni in bianco” o situazioni in cui le dipendenti vengono costrette a dimettersi.
È questa la domanda a cui ha dovuto rispondere la Corte di Cassazione. In realtà, la questione era più complicata: la società ha sostenuto che la mancata convalida delle dimissioni sospendesse l’efficacia della risoluzione del rapporto solo fino al termine del periodo protetto; scaduto questo periodo, non essendoci più alcuna esigenza di tutela, le dimissioni sarebbero state pienamente efficaci.
La Suprema Corte non ha aderito a questa interpretazione e ha affermato che tutte le dimissioni date in costanza del periodo protetto devono essere convalidate anche dopo il termine di tale periodo, altrimenti non sono efficaci.
È interessante riportare parte della motivazione con cui la Suprema Corte ha rigettato l’interpretazione proposta dalla società. Secondo i giudici di legittimità, l’unica interpretazione coerente con l’articolo 37 della Costituzione impone di ritenere che “la specifica finalità antiabusiva perseguita dalla norma in tema di convalida risulterebbe in larga parte vanificata ove si accedesse all’opzione per la quale una volta trascorso il periodo protetto non sarebbe necessaria la convalida da parte dei servizi ispettivi ministeriali per il prodursi della efficacia del negozio di recesso; il legislatore ha, infatti, inteso tutelare una volta per tutte la genuinità e spontaneità della volontà del dipendente con riferimento al momento delle dimissioni ed in relazione a tale elemento temporale la cessazione del periodo protetto costituisce un fattore neutro, inidoneo ad incidere, ora per allora, sulla modalità di formazione della volontà dismissiva espressa dal dipendente”.
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