Dal licenziamento disciplinare a quello economico: i rischi a carico dell’azienda e le tutele per i lavoratori
“Assolto perché il fatto non sussiste” è una frase tipica dei processi penali. Questa espressione è protagonista anche nei giudizi di impugnazione dei licenziamenti. Insussistenza infatti significa “inesistenza” del fatto che secondo l’azienda giustifica il ricorso a questa misura.
Vediamo quali sono i rischi per l’azienda e le tutele per il lavoratore in tutti i casi in cui il fatto contestato al dipendente risulta insussistente.
Prima di approfondire il tema principale è necessaria una premessa: nei giudizi di impugnazione, la parte obbligata a dimostrare i fatti contestati nella contestazione e nella lettera di licenziamento è l’azienda.
L’articolo 6 della legge 604 del 1966 prevede infatti che: “L’onere della prova della sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo di licenziamento spetta al datore di lavoro”.
È una regola fondamentale nel processo del lavoro e nel processo civile in generale: la parte che non riesce a provare i fatti costitutivi del proprio diritto, perde.
Il fatto che il giudizio di impugnazione sia promosso dal lavoratore, non cambia le regole del processo: in tutti questi giudizi, è l’azienda che deve dimostrare le ragioni (e i fatti) contestati al dipendente.
Significa che il fatto non sussiste, non è mai esistito oppure che la società non è riuscita a dimostrarlo.
Un esempio concreto: la società licenzia un proprio dipendente dopo avergli contestato il furto di beni aziendali. L’insussistenza del fatto può declinarsi in due modi:
In questi due casi, l’insussistenza del fatto è legata alla sussistenza e/o alla prova dei fatti storici come indicati nella contestazione disciplinare: è insussistente il fatto che non si è mai verificato oppure che non è stato dimostrato.
Negli ultimi anni, tuttavia, la giurisprudenza ha ampliato la definizione di “insussistenza del fatto”, estendendola anche ai casi di non antigiuridicità del fatto, ossia ai fatti sussistenti (e dunque materialmente accaduti) “ma privi del carattere di illiceità o rilevanza giuridica, e quindi il fatto sostanzialmente inapprezzabile sotto il profilo disciplinare, oltre che il fatto non imputabile al lavoratore”.
Non c’è una tutela unica per tutti i lavoratori. La disciplina cambia in base alla data di assunzione:
In entrambi i casi, il giudice ordina la reintegra sul posto di lavoro oltre alla condanna al pagamento di un’indennità non inferiore a 12 mensilità, dedotto quanto nel frattempo percepito dal lavoratore. La società deve inoltre versare i contributi e le ritenute fiscali. Al posto della reintegra il lavoratore può decidere di optare per un’indennità sostitutiva, pari ad ulteriori 15 mensilità.
La Corte Costituzionale, con la sentenza numero 59 del 2021, ha esteso le tutele più forti anche per i licenziamenti economici intimati sulla base di motivi insussistenti.
Per effetto di questa sentenza, in tutti i casi in cui viene accertata la “manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo”, il giudice non ha alcuna discrezionalità, ma deve disporre la reintegra e il pagamento dell’indennità in misura non superiore a 12 mensilità.
Le tutele esaminate in questo si applicano per i lavoratori alle dipendenze delle aziende medio-grandi.
Nel caso di piccole aziende (Inserire Link articolo 46) valgono delle regole diverse con tutele attenuate per i lavoratori: eccetto il caso del licenziamento nullo, nell’ipotesi di insussistenza del fatto, non è prevista la reintegra del lavoratore, ma solo una tutela risarcitoria, che va dalle 2,5 alle 10 o 14 mensilità a seconda della normativa applicabile, all’anzianità di servizio e alle dimensioni dell’azienda.
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