Licenziamento in gravidanza con contratto a tempo determinato: la sentenza

licenziamento in gravidanza con contratto a tempo determinato

Per il Tribunale di Milano la decisione dell’azienda ai danni della lavoratrice è stata una discriminazione diretta

Un’importante sentenza del Tribunale di Milano ha ritenuto discriminazione diretta il mancato rinnovo del contratto per una lavoratrice che, il giorno prima, aveva comunicato all’azienda di aspettare un bambino.

Il caso offre un nuovo spunto interessante in materia di discriminazione proveniente del Tribunale di Milano, dopo una precedente sentenza che aveva riguardato il licenziamento dei lavoratori disabili.

Il caso

La donna era stata regolarmente assunta con contratto a tempo determinato, rinnovato più volte e in scadenza il 31 gennaio 2021.

Quando, a fine settembre 2020, la lavoratrice aveva comunicato all’azienda di essere incinta, il giorno immediatamente successivo la società aveva informato la dipendente che il contratto non le sarebbe più stato rinnovato, avvisando anche il Centro per l’Impiego della cessazione del rapporto – tra l’altro comunicando una data errata e di molto precedente alla naturale scadenza. 

A due colleghe della donna, in una situazione contrattuale molto simile alla sua, il contratto era invece stato rinnovato senza alcun problema.

Due anni dopo, la lavoratrice ha quindi deciso di fare causa all’azienda, chiedendo che venga accertata la condotta discriminatoria e che le venga riconosciuto un risarcimento per i danni subiti.

Discriminazione diretta e indiretta

L’ordinamento italiano prevede due diverse fattispecie di discriminazione: quella diretta e quella indiretta. Si tratta di una divisione ripresa dalla Direttiva CE 2000/78, la normativa sovranazionale più importante in materia.

Secondo l’articolo 25 del Codice delle Pari Opportunità (il decreto legislativo 198/2006), per discriminazione diretta si intende “qualsiasi disposizione, criterio, prassi, atto, patto o comportamento che produca un effetto pregiudizievole discriminando le candidate e i candidati in fase di selezione del personale, le lavoratrici o i lavoratori in ragione del loro sesso e, comunque, il trattamento meno favorevole rispetto a quello di un’altra lavoratrice o di un altro lavoratore in situazione analoga”.

Si ha discriminazione indiretta, invece, quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri, compresi quelli di natura organizzativa o incidenti sull’orario di lavoro, mettono o possono mettere i lavoratori di un determinato sesso in una posizione di particolare svantaggio rispetto a lavoratori del sesso opposto.

La previsione a tutela della maternità e della paternità

Il Codice delle Pari Opportunità ha inoltre previsto un’ulteriore precisazione a favore delle lavoratrici e dei lavoratori, proprio con riferimento allo stato di gravidanza e alle cure familiari.

Il comma 2 bis dell’articolo 25 stabilisce infatti che:

“Costituisce discriminazione ogni trattamento o modifica dell’organizzazione delle condizioni e dei tempi di lavoro che, in ragione del sesso, dell’età anagrafica, delle esigenze di cura personale o familiare, dello stato di gravidanza nonché di maternità o paternità […] pone o può porre il lavoratore in almeno una delle seguenti condizioni: 

  1. posizione di svantaggio rispetto alla generalità degli altri lavoratori; 
  2. limitazione delle opportunità di partecipazione alla vita o alle scelte aziendali; 
  3. limitazione dell’accesso ai meccanismi di avanzamento e di
  4. progressione nella carriera”.

Il mancato rinnovo è discriminazione diretta

La società, dal canto suo, si è difesa sostenendo che il mancato rinnovo fosse dovuto a ragioni produttive, essendo venuto meno l’appalto su cui era impiegata la lavoratrice.

Tuttavia, i legali dell’azienda non sono stati in grado di spiegare il motivo dietro la comunicazione del mancato rinnovo proprio il giorno successivo alla notizia della gravidanza, ben tre mesi prima della naturale cessazione del contratto.

In realtà, secondo il giudice, quando la società ha comunicato alla donna il mancato rinnovo del contratto non era ancora arrivata alcuna notizia in merito alla cessazione dell’appalto, “non risultando alcuna richiesta o comunicazione” in tal senso.

Il giudice ha inoltre valutato la comunicazione trasmessa al Centro per l’impiego, risalente anch’essa al giorno successivo alla comunicazione della gravidanza, ed è stato considerato che la società, alla stessa scadenza, ha invece rinnovato il contratto a due colleghe della lavoratrice.

Per tutti questi motivi, il Tribunale di Milano ha concluso che sussistono elementi univoci per ritenere che la gravidanza sia stata l’unica ragione per la quale alla lavoratrice non è stata proposta la proroga del contratto.

La condotta dell’azienda è stata quindi definita “discriminatoria per aver [escluso la donna], in ragione del suo stato di gravidanza, dai soggetti tra i quali andavano individuati i destinatari dei contratti da prorogare”.

Quali tutele ha il lavoratore in caso di condotta discriminatoria?

In presenza di simili condotte, la normativa prevede la rimozione degli effetti e il ripristino della situazione. Tuttavia, come anche nel caso in oggetto, la lavoratrice è obbligata a rispettare i termini di decadenza dell’azione giudiziale, al termine dei quali sarà possibile richiedere “solo” il risarcimento dei danni.

Nel caso specifico, la dipendente ha agito ben oltre i termini (2 anni dalla cessazione del rapporto), e le è stato quindi riconosciuto esclusivamente il diritto al risarcimento del danno da perdita di chance: secondo il Tribunale “il danno non è consistito nella mancata proroga del contratto, ma nella perdita della possibilità di conseguire tale risultato, possibilità che sarebbe stata concreta ed effettiva, considerate le proroghe già reiteratamente accordate”.

Il risarcimento spettante alla lavoratrice è stato calcolato considerando il 50% della retribuzione che avrebbe percepito se il contratto fosse stato rinnovato di ulteriori nove mesi (durata del rinnovo riconosciuto alle due colleghe), detraendo dalla somma l’indennità di maternità.

 

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