La Corte d’Appello di Milano dichiara come discriminatorio il licenziamento che considera nel comporto anche le assenze causate dalla disabilità
La Corte d’Appello di Milano, con la sentenza del 1 dicembre 2022, ha dichiarato la natura discriminatoria del licenziamento intimato da una cooperativa nei confronti di un proprio dipendente per superamento del periodo di comportoÈ il periodo di tempo in cui il lavoratore, assente dal lavoro per malattia o infortunio, ha diritto alla conservazione del proprio posto di lavoro. More in cui sono state conteggiate anche le assenze dovute alla disabilità.
Secondo la Corte d’Appello di Milano, la previsione di un contratto collettivo – nel caso di specie, il Multiservizi – che non distingue le assenze causate dalla disabilità dalle assenze ordinarie, integra una discriminazione indiretta del lavoratore disabile.
Un lavoratore è stato licenziato per superamento del periodo di comporto. Aveva accumulato oltre un anno di assenze sul posto di lavoro e aveva così superato il periodo previsto dal contratto collettivo – nel caso il C.C.N.L. Multiservizi – a garanzia del posto di lavoro.
Il dipendente, affetto da gravi problemi di deambulazione, ha impugnato il licenziamento sostenendo la natura discriminatoria del recesso aziendale. Secondo il lavoratore, nel calcolo del comporto andavano escluse tutte le assenze per malattia legate al proprio status di disabile. Escluse queste assenze, il comporto non sarebbe stato superato e dunque avrebbe avuto diritto alla conservazione del posto di lavoro.
La decisione del caso ruota attorno al concetto di discriminazione. In particolare, la Corte d’Appello ha dovuto valutare se la previsione del contratto collettivo, che non faceva alcuna distinzione tra lavoratori disabili e non ai fini del calcolo del comporto, integrasse una discriminazione indiretta.
Con questa espressione, ai sensi della normativa comunitaria (la Direttiva 78/2000) e della normativa italiana antidiscriminazione, si intende “una disposizione, una prassi, un atto, un patto o un comportamento che, apparentemente neutri, possono mettere le persone portatrici di handicap in una situazione di particolare svantaggio rispetto alle altre persone”.
La Corte d’Appello ha ritenuto, in primo luogo, che riservare un trattamento del genere, con uno stesso termine di comporto, per lavoratori disabili e normodati non rappresenti un trattamento discriminatorio.
Tuttavia, per evitare che si verifichi una discriminazione indiretta è necessario escludere dal comporto tutte le assenze legate allo stato di disabilità.
A tal proposito, la Corte osserva che “rispetto a un lavoratore non disabile, un lavoratore disabile è esposto al rischio ulteriore di assenze dovute a una malattia collegata alla sua disabilità. Egli è quindi soggetto a un maggiore rischio di accumulare giorni di assenza per malattia”.
Sulla baste di queste considerazioni, i giudici di secondo grado hanno ritenuto che un’interpretazione delle previsioni contrattuali collettive coerente con il principio di non discriminazione obbliga l’azienda a non considerare, nel computo del comporto, le assenze per patologie legate alla disabilità. Diversamente, si realizzerebbe una discriminazione indiretta nei confronti dei disabili vietata dalla normativa comunitaria.
La Società si è difesa sostenendo che il licenziamento non era dettato da alcuna finalità discriminatoria. Infatti, l’azienda non sapeva e non avrebbe potuto sapere le patologie all’origine di alcune assenze per malattia.
Come noto, il certificato di malattia che viene trasmesso al datore di lavoro, per ragioni di privacy, non riporta la malattia sofferta dal lavoratore e che giustifica l’assenza.
Secondo la Corte d’Appello, a nulla rileva la circostanza che la cooperativa non fosse a conoscenza delle patologie alla base delle assenze: secondo i giudici “la discriminazione rileva oggettivamente, sicché è del tutto ininfluente, ai fini della discriminatorietà di un atto, l’intento soggettivo dell’agente”.
La nullità del licenziamento per discriminatorietà comporta delle conseguenze pesanti a carico dell’azienda e, d’altra parte, pienamente soddisfacenti per il lavoratore illegittimamente estromesso.
Accertata la discriminazione ai danni del dipendente e dichiarata la nullità del licenziamento, la Società è stata condannata a reintegrare il lavoratore e a pagare tutte le retribuzioni e i contributi maturati dalla data del licenziamento fino al giorno di effettiva ripresa in servizio.
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