“Non si tratta di un comportamento tanto grave da giustificare il licenziamento per giusta causa”, ha spiegato il Tribunale motivando la sentenza
“Chissà, chissà, se mi dici una bugia o una verità”. Nel leggere la sentenza del Tribunale di Arezzo è impossibile non pensare al celebre ritornello de “La Partita di Pallone” o a qualche scena di Amici Miei di Mario Monicelli, film ambientato in Toscana proprio come l’evento portato a processo.
Un lavoratore toscano, ufficialmente in malattia per lombosciatalgia, aveva deciso di andare allo stadio per vedere la sua squadra del cuore, la Fiorentina, giocare contro gli storici rivali della Juventus.
Purtroppo per lui, la sua azienda lo stava in realtà pedinando da tempo. Una volta accertata la presenza allo stadio, la punizione è stata esemplare: licenziamento per giusta causaÈ il licenziamento inflitto senza preavviso a fronte di una condotta del dipendente talmente grave da non consentire la prosecuzione, neanche temporanea, del rapporto. More. Ma il Tribunale di Arezzo non si è detto d’accordo, giudicando la sanzione fin troppo severa.
Innanzitutto, bisogna specificare che lo stato di malattia non impone al lavoratore di rimanere chiuso in casa o di astenersi dall’attività fisica o sportiva. Al di fuori degli orari delle visite fiscali, il dipendente è infatti libero di svolgere qualsiasi attività, a condizione che questa non aggravi la patologia o non ritardi la guarigione.
In generale, come ricorda di frequente la giurisprudenza, “il lavoratore non deve solo fornire la prestazione lavorativa, ma, quale obbligo accessorio, deve anche osservare comportamenti corretti e rispettosi al di fuori dall’ambito lavorativo, tali da non ledere gli interessi morali e materiali del datore di lavoro o compromettere il rapporto fiduciario con lo stesso”.
La risposta a questa domanda è assolutamente affermativa: come detto, non c’è alcun divieto per lo svolgimento di altre attività, a patto che queste siano compatibili con la patologia e non ritardino o pregiudichino la guarigione.
Proprio di recente, con la sentenza numero 12994 del 2023, la Corte di Cassazione ha confermato la legittimità del licenziamento per un dipendente sulla base del fatto che “lo svolgimento di altra attività lavorativa […] durante lo stato di malattia configuri violazione degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà, nonché dei doveri generali di correttezza e buona fede, nell’ipotesi in cui tale attività esterna possa pregiudicare o ritardare la guarigione o il rientro in servizio”.
Nel caso deciso dal Tribunale di Arezzo, l’azienda ha contestato al lavoratore di aver simulato uno stato di malattia in realtà inesistente, accusandolo inoltre di essersi accordato con il proprio medico di fiducia per certificare una finta patologia.
Tuttavia, l’azienda non è stata in grado di fornire prove convincenti a supporto dell’accusa posta: secondo il Giudice, le affermazioni della società e le prove addotte non sono in grado di dimostrare oltre ogni ragionevole dubbio l’assenza della patologia.
Stabilità la concretezza della malattia, rimaneva un ulteriore dubbio legato alla presenza del lavoratore allo stadio: la sua condotta è stata così grave da giustificare il licenziamento per giusta causa?
Il Tribunale di Arezzo ha ritenuto che i fatti contestati al lavoratore avessero sì rilevanza disciplinare, ma non potessero giustificare un licenziamento – al massimo una sanzione conservativa.
Secondo il Giudice, “il fatto di recarsi ad una partita non necessariamente implica l’aggravarsi della malattia lamentata dal lavoratore”, e a tal proposito “il fatto che non ci sia stato un aggravarsi dello stato patologico è dimostrato nella misura in cui il dipendente è tornato nel luogo di lavoro non appena conclusosi il periodo di malattia stabilito nella certificazione”.
Inoltre, al di fuori dell’orario di reperibilità per le visite fiscali, “il diritto di libera circolazione va assicurato a ciascuno che non sia destinatario di provvedimenti restrittivi promananti dall’autorità giudiziaria”.
Inoltre, ha spiegato la Corte, “la durata di una partita si estende per un arco temporale ben più breve rispetto all’intera giornata lavorativa e, a fronte di un eventuale accentuarsi del dolore, in quel ristretto frammento temporale, il dipendente avrebbe potuto reagire anche tramite l’assunzione di un unico antidolorifico”.
Infine, assistere a una partita di calcio sarebbe molto meno faticoso rispetto al suo lavoro ordinario: si legge nella sentenza che “mentre assistere ad una partita non richiede particolari sforzi (essendo visionabile anche assumendo una posizione seduta), l’attività di affilatore richiedeva il maneggio di carichi a mano”.
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