Licenziamento: è legittimo per le condotte extralavorative che precedono l’assunzione

condotta extralavorativa
(foto Shutterstock)

Anche le condotte extralavorative commesse prima dell’inizio del rapporto giustificano il venir meno della fiducia

Di solito una persona viene licenziata a causa di inadempimenti o errori commessi durante lo svolgimento della propria attività lavorativa: si tratta della situazione più diffusa, ma non è l’unica. Se leggiamo l’articolo 2119 del codice civile, che disciplina il licenziamento per giusta causa, scopriamo che non ci sono limitazioni di alcun tipo. 

L’azienda, quindi, può ricorrere al licenziamento anche per comportamenti che deludono la fiducia anche quando sono adottati fuori dall’orario di lavoro oppure, come nel caso deciso dalla Cassazione che vediamo in questo articolo, per fatti commessi in un’epoca precedente l’assunzione.

Il caso: un lavoratore non comunica condotta extralavorativa

Un dipendente da poco assunto dall’Agenzia delle Entrate è stato coinvolto in un processo penale dall’Agenzia perché, dopo un’intensa operazione investigativa, quest’ultima si è accorta che il dipendente aveva compiuto delle azioni scorrette prima dell’assunzione.

Che cosa gli è stato contestato nello specifico? L’Agenzia ha scoperto che il dipendente, assieme a un funzionario Inps e al titolare di un patronato, avrebbe ricevuto delle somme per il “buon esito” delle pratiche portate a termine dall’Inps e avrebbe anche procacciato dei possibili beneficiari di prestazioni previdenziali e incassato la metà dei trattamenti riconosciuti una volta conclusa la pratica.

A questo punto l’Agenzia delle Entrate ha licenziato il dipendente per giusta causa perché, anche se si trattava di comportamenti precedenti all’assunzione, secondo il datore di lavoro avevano compromesso il vincolo fiduciario alla base del contratto di lavoro.

La rilevanza delle condotte extralavorative

La giurisprudenza e la dottrina sono d’accordo nel ritenere che i comportamenti tenuti fuori dal lavoro possano avere una rilevanza anche in ambito lavorativo. Quindi, ogni dipendente deve essere consapevole che quello che fa fuori dall’azienda e fuori dall’orario lavorativo può avere gravi conseguenze sul suo rapporto di lavoro.

Insomma, dei comportamenti che possono minare la fiducia del datore possono portare anche al licenziamento disciplinare, proprio come successo nel caso di cui stiamo parlando in questo articolo. 

Infatti, in giurisprudenza è un principio pacifico che “il lavoratore è tenuto non solo a fornire la prestazione richiesta ma anche, quale obbligo accessorio, a non porre in essere, fuori dall’ambito lavorativo, comportamenti tali da ledere gli interessi morali e materiali del datore di lavoro o compromettere il rapporto fiduciario”.

Condotte gravi, licenziamento proporzionato

Prima di arrivare alla sentenza della Cassazione, all’inizio dell’iter giudiziario il dipendente aveva impugnato il licenziamento. Tra i motivi di impugnazione c’era quella che in gergo si chiama “sproporzionalità”. Secondo il lavoratore, considerati i fatti contestati, sarebbe stata sufficiente una sanzione conservativa e non quella espulsiva. 

In tutti i tre gradi di giudizio, invece, i giudici hanno ritenuto proporzionato e legittimo il licenziamento. Nella sentenza della Corte di Cassazione viene confermato che “i comportamenti tenuti dal ricorrente prima dell’assunzione sono di gravità e natura tali da ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario, una volta emersi in epoca successiva all’inizio del rapporto lavorativo”. 

Inoltre, disattendo le difese del lavoratore, la Cassazione ha rilevato “come non avesse pregio l’ipotesi della collocazione del lavoratore in attività meno a rischio, sia perché era difficile rinvenirne nell’ambito del nuovo rappprto, sia perché il pericolo di replica di condotte illecite sussisteva a prescindere, avendo il ricorrente posto in essere i reati, rispetto a pratiche INPS, pur essendo estraneo a tale ente.”

L’autonomia del processo penale rispetto al procedimento disciplinare

Il lavoratore è stato condannato in primo grado, mentre nel grado d’appello è stata dichiarata l’estinzione del reato per prescrizione. Che rapporti ci sono tra procedimento penale e procedimento disciplinare avviato dall’azienda? L’eventuale sentenza di condanna ha effetti automatici anche nel giudizio civile di impugnazione del licenziamento?

Generalmente, i due procedimenti sono autonomi, considerata anche la diversa tempistica con cui possono iniziare e concludersi. Nel caso di contemporaneità dei due giudizi, seppur la questione sia complicata, può essere così riassunta:

  • la sentenza penale di condanna passata in giudicato ha effetti anche nei confronti del giudizio civile, se riguarda gli stessi fatti e se è stata resa al termine del dibattimento;
  • la sentenza di assoluzione, invece, non vincola il giudice del lavoro.

Ed è ciò che è successo nel caso di specie: il Tribunale e la Corte d’Appello, che hanno confermato la legittimità del licenziamento, non hanno (e non avrebbero potuto) preso l’esito della sentenza di condanna, ma hanno valorizzato, motivando, le risultanze probatorie ottenute in quel giudizio, unitamente a quanto dedotto nel processo di impugnazione del licenziamento.

Peraltro, in un recente caso di cui abbiamo parlato anche qui, la Cassazione ha affermato che “la presunzione di innocenza attiene alle garanzie relative all’esercizio dell’azione penale e non può trovare applicazione analogica o estensiva in sede di giurisdizione civile, con riguardo alla materia delle obbligazioni e dei contratti”.

 

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