I progetti di settimana corta vogliono spostare il focus dalle ore lavorate alla produttività, ma senza benessere delle persone emergono delle criticità
Lavorare con orari flessibili può migliorare la produttività e l’efficienza, ma soprattutto riequilibrare il fragile binomio vita-lavoro. Una delle proposte che in questo senso sta avendo maggiore eco a livello internazionale è la settimana lavorativa di quattro giorni.
La nuova tendenza è divenuta realtà anche in alcuni Paesi europei, come Belgio, Finlandia, Islanda o Regno Unito, e comincia a essere sperimentata anche in Italia.
Un recente articolo pubblicato sulla Harvard Business Review racconta quanto emerge da uno studio condotto sui lavoratori in Nuova Zelanda, tra i primi al mondo a sperimentare diffusamente questa opportunità.
La settimana corta può essere una buona soluzione per aumentare la produttività e slegare persone e organizzazioni da una visione rigida dell’orario di lavoro, ma secondo lo studio presenta comunque delle criticità che devono essere prese in considerazione dai dirigenti d’azienda.
La pandemia ha accelerato il passaggio a sistemi di lavoro più flessibili per i lavoratori, che presentano dei chiari vantaggi dal punto di vista economico e logistico. Se però si guarda al di là del “dove” si lavora e ci si interroga invece su “quanto”, il discorso cambia decisamente aspetto.
Tre ricercatrici dello UK Digital Futures at Work (Digit) Research Centre hanno approfondito uno studio realizzato in Nuova Zelanda negli ultimi due anni, sui lavoratori impegnati quattro giorni a settimana.
Emma Russell, Caroline Murphy e Esme Terry sono partite da una domanda semplice quanto stringente. Si sono chieste se tutte le misure introdotte per favorire i lavoratori – lavoro da remoto, ibrido e smart, settimana da 4 giorni, ferie pagate illimitate, diritto alla disconnessione – facciano davvero la differenza sulla loro qualità della vita.
Secondo le tre studiose, il principale problema che resta sul piatto sono i carichi di lavoro eccessivi e la loro intensificazione, proprio a seguito delle nuove misure di organizzazione lavorativa come la settimana corta. Concentrandosi troppo sul “dove” e “come” le persone lavorano, la politica e il mondo produttivo hanno perso di vista proprio il “quanto”, cioè il tempo effettivo speso dai lavoratori per svolgere le mansioni e i progetti di loro competenza.
Nel loro recente studio sugli effetti della settimana lavorativa corta in Nuova Zelanda, le ricercatrici Helen Delaney e Catherine Casey hanno verificato non solo che il carico di lavoro si è intensificato, a seguito del cambiamento di orari settimanali, ma che sono aumentate anche le pressioni dei manager sulla misurazione della performance, sul monitoraggio e sulla produttività.
A discapito di narrazioni e studi promossi dai media, per cui la produttività non dovrebbe calare e anzi aumentare, se la transizione ai 4 giorni viene gestita bene, secondo le autrici dell’articolo della Harvard Business Review risulta difficile credere che degli impiegati già stressati e sovraccarichi riescano ad assolvere la stessa mole di lavoro con un giorno in meno a disposizione.
Russel, Murphy e Terry, dichiarandosi ugualmente a favore del cambiamento, sottolineano con forza che i leader devono sapere due cose fondamentali prima di provare la settimana lavorativa di 4 giorni, siano essi politici, manager o imprenditori:
Partendo dall’assunto che togliere l’accesso al posto di lavoro non elimina il lavoro stesso, si entra nel cuore della questione. Varie ricerche condotte negli ultimi anni indicano che il periodo di tempo in cui le persone accettano di rimanere collegate al lavoro anche fuori dall’orario varia sensibilmente a seconda delle differenze individuali e delle circostanze.
Spesso i lavoratori non hanno molta scelta. È stato analizzato che le persone con carichi superiori tendono a “ruminare il lavoro” anche fuori orario e faticano a staccare, fino a che i problemi non sono stati risolti.
D’altro canto, una ricerca sulle attività collegate allo scambio di email, condotta nel 2019 dalle stesse autrici dell’articolo, mostra che tanti vogliono invece essere in grado di controllare e rimanere collegati fuori orario, perché sono molto più preoccupati di non essere aggiornati su quanto sta avvenendo al lavoro.
Visto che sempre più governi e organizzazioni cominciano a parlare di proposte concrete per attuare la settimana di 4 giorni, è bene ragionare su come i diversi tipi di tempo libero si traducono in benessere e migliori performance.
Per esempio, è preferibile avere un giorno libero in più a settimana oppure avere l’orario di quattro giorni lavorativi da spalmare liberamente nel corso della settimana? I gestionali che registrano come le persone utilizzano il loro tempo al lavoro possono essere usati per verificare che queste stacchino veramente? E ancora, i vari gruppi di lavoratori e le persone con responsabilità di assistenza beneficiano ugualmente del fatto di non poter accedere al lavoro in certi orari o giorni?
L’esempio neozelandese ha evidenziato che con la settimana di 4 giorni i dipendenti, per stare al passo con le loro mansioni, fanno pause più brevi e passano meno tempo a socializzare tra un’attività e l’altra.
Come riportato su un articolo di Wired, mentre alcuni hanno apprezzato la frenesia di lavorare a passo spedito, altri hanno avvertito che l’ansia e la pressione stava causando loro livelli di stress elevati, tanto da finire per avere bisogno del giorno libero in più proprio per riprendersi dalla fatica e dall’intensità del lavoro.
L’opinione delle autrici è che anche in questi temi il successo delle varie iniziative starà nella cura dei dettagli. L’idea del diritto alla disconnessione e alla settimana lavorativa di 4 giorni può essere assolutamente lodevole, ma c’è sempre un rischio nel fissarsi in modo acritico, con una soluzione specifica, uguale per tutti.
L’unica certezza è che un ragionamento a lungo termine sul benessere dei lavoratori, che tenga conto del loro tempo libero, sia la base per costruire la felicità e la prosperità della società del futuro.
Leggi anche:
Carter & Benson, sì a settimana corta, “ma non parliamo di produttività”