In Italia, avere un salario dignitoso è un principio garantito dalla Costituzione. Per realizzarlo ha un ruolo chiave la contrattazione collettivaÈ l’accordo stipulato a livello nazionale tra i sindacati di rappresentanza dei lavoratori e dei datori di lavoro per regolare determinati aspetti dei contratti individuali di lavoro di un certo settore (es. orario di lavoro, retribuzione minima, ferie, congedi, ecc.). More. Tuttavia, gli stipendi negoziati e indicati dai CCNL non sono sempre proporzionati e sufficienti.
In questo contesto, la Corte d’Appello di Milano, che ha dichiarato insufficiente la retribuzione prevista da un contratto collettivo, firmato dalle sigle più rappresentative, proprio per questo motivo. Non solo: tra le motivazioni dei giudici milanesi c’è anche un preciso riferimento al reddito di cittadinanza.
Il tema della retribuzione «proporzionata e dignitosa» si accompagna a quello del salario minimo, che sta appassionando politica e mondo sindacale.
L’art. 36 della Costituzione è uno dei pilastri del nostro sistema e prevede che «Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa».
I livelli retributivi sono stabiliti dalla contrattazione collettiva e rappresentano la sintesi delle trattative tra i rappresentanti sindacali e le associazioni datoriali di un determinato settore economico.
La contrattazione collettiva è sicuramente il principale strumento di tutela degli interessi (anche economici) del lavoratore. Infatti, se non ci fosse, quest’ultimo si ritroverebbe a negoziare il proprio stipendio nei confronti di un soggetto (l’azienda) che, di regola, gode di una maggiore forza contrattuale.
La stessa Direttiva sul salario minimo considera la contrattazione collettiva come la principale protagonista nell’istituzione di questa misura a livello europeo: l’obiettivo degli Stati deve essere l’80% di copertura come soglia che garantisce stipendi dignitosi per i lavoratori e le loro famiglie.
Tuttavia, ci sono dei casi in cui i contratti collettivi, anche se negoziati e sottoscritti dai sindacati maggiormente rappresentativi, non garantiscono ai dipendenti una retribuzione in linea con i precetti costituzionali.
È il caso di quello degli istituti di vigilanza privata e servizi fiduciari sottoposto all’attenzione della Corte d’Appello di Milano. Una portinaia ha denunciato che il contratto collettivo applicato le avrebbe riconosciuto una retribuzione di gran lunga inferiore rispetto a quanto previsto da contratti analoghi.
La dipendente, a supporto della propria domanda, ha allegato dei dati concreti per permettere un rapido confronto: il contratto applicato dall’azienda le riconosceva uno stipendio di 930 euro lordi mensili in confronto a quello Multiservizi, che prevedeva uno stipendio lordo di 1.183 euro per 14 mensilità, o rispetto a quello del Terziario che, per profili analoghi, prevede uno stipendio mensile lordo di 1.354 euro per 14 mensilità.
La lavoratrice ha quindi chiesto di disapplicare il contratto scelto dall’azienda (nella parte in cui quantifica lo stipendio annuo e mensile) e ha richiesto un adeguamento del 30% sulla base degli importi dei contratti presentati.
La Corte d’Appello di Milano, con la sentenza 580 del 13 giugno 2022, ha ribaltato la precedente pronuncia del Tribunale milanese e ha accolto il ricorso della lavoratrice: la retribuzione prevista non era né sufficiente, né proporzionata al lavoro svolto.
In quali casi lo stipendio previsto dai contratti collettivo non rispetta l’art. 36 della Costituzione?
Secondo la Corte d’Appello la circostanza che tutti gli altri contratti collettivi astrattamente applicabili avessero previsto, per profili analoghi, una retribuzione superiore del 30%, è la dimostrazione che lo stipendio non fosse adeguato alla qualità e alla quantità della prestazione.
Inoltre, uno stipendio di 930 euro lordi mensili, pari a un netto di 650 euro, è addirittura inferiore alla soglia di povertà, stabilita dall’INPS per le persone che vivono da sole, che è pari a 819 euro mensili. Secondo i giudici della Corte questo dato dimostra l’insufficienza della retribuzione a garantire un’esistenza dignitosa.
La Corte d’Appello ha sottolineato l’insufficienza della retribuzione prevista dal contratto collettivo anche sulla base di un’altra motivazione: emerge in modo intuitivo dalla considerazione che i rispettivi importi netti, oltre ad essere inferiori ai valori soglia di povertà Istat, risultano di gran lunga inferiori ad es. al reddito di cittadinanza (il cui massimo importo mensile può raggiungere i 780,00 euro), nonché all’offerta «congrua di lavoro» che fa riferimento a una retribuzione «superiore di almeno il 10 per cento del beneficio massimo, pari cioè a 858,00 euro».
Se dunque l’importo di un mese di lavoro full time è inferiore all’importo massimo del sussidio, lo stipendio non è né proporzionato, né sufficiente a garantire una vita dignitosa.
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