Rider, primo contratto nazionale fra le polemiche

Primo contratto dei rider fra le polemiche
(foto Shutterstock)

Firmato da Ugl e Assodelivery, è il primo contratto in Europa. Ma tra gli operatori delle consegne a domicilio è già polemica

Sfrecciano con le loro biciclette lungo le strade di ogni città, portando in spalla grandi zaini colorati. Corrono di giorno, ma soprattutto la sera e consegnano qualsiasi cosa, dal kebab alla spesa, dalla pizza ai prodotti di bellezza. Sono per lo più giovani studenti, in larga parte stranieri ma non solo. Sono i cosiddetti “rider”, versione moderna (e digitale) dei vecchi fattorini. Il loro è nato come un “lavoretto”, ma le dimensioni assunte dal fenomeno (in Italia parliamo di 20 mila persone) hanno imposto una riflessione su come regolamentarlo. Arriva così, dopo lunghe discussioni, il primo contratto collettivo dei rider, firmato il 16 settembre da Ugl e Assodelivery, sigla che raggruppa tutte le app più famose ed utilizzate. Ma la polemica è già esplosa con proteste in molte città italiane, da Torino a Bologna.  

Il contratto

La grande novità (e la feroce polemica) è già nel titolo: “Contratto collettivo nazionale per la disciplina dell’attività di consegna di beni per conto altrui, svolta da lavoratori autonomi”. I rider sono quindi qualificati come “lavoratori autonomi”. Più precisamente, il rider è definito «lavoratore autonomo che, sulla base di un contratto con una o più piattaforme, decide se fornire la propria opera di consegna dei beni, ordinati tramite applicazione». Si tratta di una presa di posizione netta e in palese controtendenza rispetto alla storica battaglia per il riconoscimento della natura subordinata del rapporto tra rider e app. 

Nel testo del contratto sono poi citate le caratteristiche dell’“autonomia” della prestazione: il rider può decidere se lavorare o meno; se connettersi o no. Se e quando lavorare, senza fornire alcuna giustificazione e senza alcun vincolo di orario o reperibilità. Se accettare o meno le consegne. Se connesso e disponibile, non ha alcuna garanzia che gli vengano affidate delle consegne

Compensi e tutele

In base al contratto appena sottoscritto, i rider non hanno alcun compenso minimo garantito poiché le piattaforme non garantiscono l’affidamento di consegne da eseguire durante il turno in cui il rider ha dato la propria disponibilità. In ogni caso, il compenso è pari a 10 euro (lordi) all’ora, riparametrato rispetto al tempo di esecuzione di ciascuna singola consegna, come determinato dall’app.

Si tratta, in buona sostanza, di un compenso a cottimo perché dipende dal numero di consegne eseguite e dal tempo già prestabilito, che in ogni caso non può garantire un compenso superiore ai 10 euro lordi all’ora.

Sono previsti, in aggiunta, dei sistemi premiali con maggiorazioni sino al 20% in caso di lavoro notturno (prestato da mezzanotte alle 7.00), in condizioni meteorologiche avverse o durante le festività. Il rider ha, inoltre, diritto ad una erogazione una tantum se, nel periodo gennaio-dicembre, supera le 2.000 consegne a domicilio. E le ulteriori indennità? Per i lavoratori autonomi non ci sono straordinari, Tfr, ferie, tredicesima e quattordicesima, nessuna indennità in caso di malattia.

La battaglia e le proteste

In tempi in cui, lungi dall’essere un “lavoretto”, la consegna a domicilio assicura da vivere a decine di migliaia di persone, rider e sindacati si sono uniti per chiedere maggiori garanzie e tutele. A partire dal riconoscimento della subordinazione del rapporto di lavoro, per la quale si sono lungamente spesi Cgil, Cisl, Uil e i sindacati di base. Di qui le proteste che si sono moltiplicate in numerose città italiane. A Torino i rider hanno preso d’assalto la sede dell’Ugl, mentre a Bologna hanno manifestato davanti la sede dello stesso sindacato parlando di «azione antisindacale». Lo stesso è accaduto anche a Genova. «Non siamo lavoratori autonomi» è il refrain che rimbalza di piazza in piazza. 

Dure le reazioni dei sindacati, a cui si è unita anche la Ministra del Lavoro Nunzia Catalfo: «un contratto pirata» l’ha definito, sottolineando che «le disposizioni contrattuali sul compenso potrebbero essere ritenute, anche in sede ispettiva, contra legem e dunque sostituite per norma di legge».

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