Il lavoratore assunto con contratto a termine non può dimettersi quando vuole. A differenza del rapporto a tempo indeterminato, quello a tempo determinato è più rigido in ingresso e in uscita.
Che cosa significa? Ad esempio, in questo tipo di contratto non esistono le dimissioniL’atto unilaterale con cui il lavoratore comunica di voler interrompere il rapporto lavorativo con il datore di lavoro. More con preavviso, ma solo le dimissioni per giusta causa.
Cosa succede se un dipendente si dimette prima? Può essere chiamato a risarcire il danno a favore dell’azienda.
Facciamo un po’ di ordine e chiarezza: questa forma contrattuale non è flessibile. Né in ingresso, né in uscita. Anzi, è una forma contrattuale molto rigida.
Le aziende possono utilizzarlo solo in presenza di determinati presupposti (le causali), per un periodo massimo di tempo e non possono rinnovare o prorogare liberamente i rapporti.
L’unica assunzione a termine libera è quella di durata inferiore ai 12 mesi.
Ciò significa che i datori devono prestare la massima attenzione alla successione di contratti con lo stesso lavoratore e alla durata massima del rapporto.
Inoltre, la maggior parte dei contratti collettivi prevede una percentuale massima di lavoratori con questa forma contrattuale all’interno dell’azienda. È un altro limite posto dalla contrattazione collettiva che, se da un lato non ha dirette conseguenze sui contratti in eccesso, ha un impatto negativo sui rapporti sindacali e sulle relazioni industriali.
Anche dal lato del lavoratore ci sono delle rigidità. Ad esempio, per quanto riguarda le dimissioni.
Il lavoratore con un contratto a tempo indeterminato può dimettersi, sempre e in ogni caso, osservando un periodo di tempo – detto preavviso – sancito dalla contrattazione collettiva: alla fine del preavviso il rapporto si estingue.
Invece, per il contratto a tempo determinato non sono previsti né il preavviso né le dimissioni volontarie. Perché? La risposta è contenuta nel senso stesso del contratto a tempo determinato: il lavoratore, con la firma del contratto di assunzione, si è impegnato a prestare la propria attività per un determinato periodo di tempo.
Il lavoratore ha comunque la possibilità di rassegnare le proprie dimissioni per giusta causa. È un principio generale del nostro ordinamento che si applica anche ai rapporti di lavoro. In tutti i rapporti a tempo è sempre possibile recedere per giusta causa.
Quando si verifica la giusta causa di dimissioni? La legge non fa un elenco di ipotesi, ma rientrano in questa definizione tutti i casi in cui non è più tollerabile, nemmeno in via provvisoria, proseguire il rapporto.
Vediamo alcuni degli esempi più frequenti: mancato pagamento di alcune mensilità di stipendio, gravi violazioni in tema di sicurezza sul lavoro, vessazioni in azienda, demansionamenti. In questi casi chi lavora a termine può dimettersi per giusta causa con effetto immediato dal momento della comunicazione.
I problemi sorgono nel caso in cui un dipendente si dimetta prima della fine del rapporto.
È un caso molto frequente, spesso motivato dal fatto che il lavoratore ha trovato un’occupazione migliore, magari a tempo indeterminato. In questo caso, le dimissioni sono illegittime.
La conseguenza? Si tratta di un inadempimento del lavoratore che potrebbe essere chiamato a risarcire il danno a favore dell’azienda.
Infatti, il datore aveva fatto affidamento sulle prestazioni del proprio dipendente per un determinato arco temporale e, per effetto del recesso illegittimo, si ritrova con una posizione lavorativa scoperta e con la necessità di trovare una nuova risorsa.
Questa situazione è una delle possibili voci di danno che l’azienda può chiedere al lavoratore che si dimette da un contratto a termine. Le altre possono essere gli investimenti sulla formazione, l’acquisto di determinati beni strumentali, ecc.
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