I contributi previdenziali assicurano e tutelano il lavoratore nei periodi in cui non lavora, come malattia, maternità, disoccupazione e pensione
I contributi previdenziali sono delle somme che il lavoratore paga per finanziare una serie di prestazioni a sua tutela previste dalla legge.
Infatti, la Costituzione sancisce che per i lavoratori siano previsti adeguati mezzi di sostegno in caso di infortunio, malattia, invalidità, vecchiaia e disoccupazione involontaria. Sono quindi previste prestazioni economiche e sanitarie per tutelare, oltre che dai rischi lavorativi, anche da eventi naturali come l’avanzare dell’età o la maternità.
Si tratta di somme che vanno pagate obbligatoriamente. In parte gravano sullo Stato, in parte sui datori e in parte sui lavoratori. Nel caso di lavoro subordinato, vengono pagati attraverso una quota della retribuzione; nel caso invece di lavoro autonomo, viene destinata una parte del reddito di lavoro.
Innanzitutto, è bene sapere che sono trattati in modo diverso se il lavoratore è dipendente o autonomo.
In quest’ultimo caso, l’onere è interamente a carico del prestatore di lavoro. Questo significa che vanno pagati direttamente e in modo esclusivo dal lavoratore.
Nel caso dei dipendenti, invece, sono ripartiti tra lavoratore e datore, ma è quest’ultimo che deve versare sia quelli a suo carico che quelli a carico del lavoratore, ed è quindi responsabile sia civilmente sia penalmente del versamento.
Lo stesso vale per le collaborazioni coordinate e continuative, per le collaborazioni occasionali (solo se il reddito supera un certo importo) e per gli associati in partecipazione.
Come funziona? Al dipendente viene trattenuta la quota in busta paga e poi il datore procederà con il versamento entro il giorno 16 del mese successivo a quello in cui è scaduto l’ultimo periodo di paga. Il lavoratore può verificare il versamento inoltrando la richiesta dell’estratto contributivo direttamente sul sito dell’INPS.
L’ammontare viene calcolato in percentuale sull’importo della retribuzione imponibile (lavoro subordinato) o del reddito di lavoro (lavoro autonomo).
Nel primo caso, rientrano nella retribuzione imponibile tutte le somme e i valori in genere, a qualunque titolo, percepiti nel periodo d’imposta, anche sotto forma di erogazioni liberali, in relazione al rapporto lavorativo.
Che cosa significa? Vanno considerate per il calcolo tutte quelle voci che, anche fiscalmente, concorrono al reddito, con esclusione di alcuni importi (ad esempio premi di risultato o di produttività, somme corrisposte a titolo di TFR, incentivi all’esodo, trattamenti familiari, ecc.…).
A questa somma totale viene applicata la percentuale di contribuzione, chiamata aliquota. Quest’ultima varia a seconda del settore di riferimento dell’azienda, delle dimensioni della stessa, della qualifica della persona (operaio, impiegato, apprendista) e dalla tipologia di contratto (tempo indeterminato o determinato o in base al numero di rinnovi).
La legge prevede inoltre un minimale contributivo, cioè un importo minimo su cui vengono pagati i contributi. Infatti, la retribuzione da prendere come base per il calcolo non può essere inferiore all’importo delle retribuzioni stabilito da leggi, regolamenti, contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative sul piano nazionale.
A garanzia del lavoratore dipendente opera il principio della cosiddetta «automaticità delle prestazioni». Ciò significa che queste sono dovute anche nel caso in cui l’azienda non abbia regolarmente effettuato il versamento.
Questo vale per la maggior parte delle prestazioni previdenziali, cioè malattia, infortunio, maternità e congedi parentali, Naspi, cassa integrazione, ecc. Viene invece espressamente esclusa la pensione.
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