In Italia la legge e i contratti collettivi non li prevedono, ma il caso di una dipendente pubblica ha fatto scuola. Le esigenze legate alla cura degli animali sono sempre più diffuse tra i lavoratori
Gli italiani sono il secondo popolo in Europa per possesso di animali da compagnia.
In totale, secondo una stima condotta da Censis (Fondazione Centro Studi Investimenti Sociali) in Italia sono presenti 32 milioni di animali domestici, tra uccelli, gatti, cani, criceti, conigli, pesci e rettili; nello specifico nel 52% delle abitazioni, soprattutto in quelle di persone separate, divorziate e single.
Negli ultimi tre anni le uscite economiche degli italiani per la cura e il benessere degli animali domestici sono salite del +12,9%, e nel 2017 le famiglie hanno speso 5 miliardi di euro, in media 371,4 euro all’anno ciascuna, in cibo, cure veterinarie, accessori e toelettatura.
Tant’è che le aziende più all’avanguardia e pet friendly, come Google e Purina per fare due nomi, ma anche altre imprese molto più piccole, hanno iniziato a introdurre forme di welfare aziendaleÈ l’insieme di benefit e prestazioni che un datore di lavoro riconosce ai suoi dipendenti, in aggiunta alla normale retribuzione, con lo scopo di migliorarne la qualità della vita privata e professionale. More legate alla cura dell’animale, consentendo ad esempio ai dipendenti di portare il proprio cane a lavoro, con la finalità di migliorare il clima e la produttività aziendale.
I dati confermano insomma come gli animali facciano decisamente parte della vita delle persone, e non è dunque difficile immaginare che in un futuro (forse non troppo lontano) il legislatore o i contratti collettivi potranno concedere indistintamente ai lavoratori dei permessi retribuiti per l’accudimento dell’animale da compagnia nel caso di un grave problema di salute. Ma oggi non è ancora così.
La vicenda che però ha davvero fatto scuola sul piano giuridico, affermando l’esistenza da parte della Cassazione di un diritto al permesso retribuito per l’assistenza dell’animale domestico (riconoscibile solo in precise circostanze), fa riferimento a quanto accaduto a una dipendente del settore pubblico romano.
La donna si era vista in prima battuta rigettare la richiesta di permesso di due giorni per prestare assistenza al suo cane, che doveva essere sottoposto a un intervento salvavita a causa di una paresi alla laringe.
Il rifiuto era stato giustificato in quanto l’esigenza non risultava strettamente connessa a gravi motivi familiari o personali, poiché nell’ordinamento italiano l’animale domestico non ha soggettività giuridica e non rientra legalmente tra i familiari.
In un secondo momento la lavoratrice, che viveva da sola e non poteva affidare l’animale a nessuno, aveva chiesto una consulenza alla Lav (Lega Anti Vivisezione), in seguito alla quale le era stato concesso il permesso retribuito (possedendo i dovuti requisiti e le certificazioni medico-veterinarie). Ciò è accaduto perché la mancata cura dell’animale di proprietà si sarebbe potuta configurare come reato di maltrattamento di animale, punito dal Codice Penale.
La strada verso i permessi retribuiti per l’accudimento dell’animale domestico estesa a tutti i lavoratori è ancora lontana dall’attuazione, anche se i primi casi denotano l’alba di quello che potrebbe essere un bisogno crescente, in quanto gli animali sono considerati sempre di più come membri della famiglia dai proprietari.
Qualora tali permessi non rientrassero mai nella disponibilità del lavoratore, sarà comunque sempre possibile richiedere i tradizionali permessi retribuiti (R.O.L. ed Ex festività previsti da ogni c.c.n.l.) o dei giorni di ferie al datore di lavoro.