Qual è la tutela del lavoratore disabile?
Il datore di lavoro, nell’esercizio del proprio potere organizzativo, può adottare tutti gli accorgimenti, modifiche e innovazioni al sistema produttivo al fine di rendere più efficiente e profittevole l’attività di impresa. In questo potere vi rientra anche la possibilità di trasferire uno o più lavoratori da un reparto ad un altro oppure ad una diversa unità produttiva, situati anche in un’area geografica diversa e magari molto più distante. Tuttavia, il potere di trasferire i lavoratori non può essere esercitato a discrezione dell’azienda, ma incontra precisi limiti. Onde evitare trasferimenti arbitrari (o ritorsivi), la legge condiziona il trasferimento a determinati presupposti: l’art. 2103 del codice civile stabilisce che «Il lavoratore non può essere trasferito da un’unità produttiva ad un’altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive.»
Ciò significa che solo in presenza di queste effettive esigenze il datore di lavoro può trasferire il dipendente. Il lavoratore può impugnare il trasferimento ed è onere dell’azienda dimostrare la sussistenza dei presupposti del trasferimento.
Nell’ambito della più estesa tutela accordata ai lavoratori con disabilità, il Legislatore ha previsto:
In particolare, l’art. 33 della Legge 104/1992 prevede che «La persona handicappata maggiorenne in situazione di gravità […] ha diritto a scegliere, ove possibile, la sede di lavoro più vicina al proprio domicilio e non può essere trasferita in altra sede, senza il suo consenso».
Vi è dunque un divieto per l’azienda di trasferire il lavoratore disabile, senza il consenso di quest’ultimo. La motivazione di questa previsione è di immediata comprensione: l’equilibrio vita/lavoro del disabile è molto complesso, coinvolge una pluralità di aspetti (gli spostamenti, l’assistenza, le cure) che potrebbe essere pregiudicato nel caso in cui l’azienda potesse trasferire il lavoratore secondo le previsioni della disciplina ordinaria.
Il diritto a non essere trasferito (senza consenso) non spetta indistintamente a tutti i lavoratori disabili. L’art. 33 cita «la persona handicappata maggiorenne in situazione di gravità» e ciò significa che la disabilità deve essere grave.
Non solo. Lo stato di disabilità grave deve essere debitamente certificato al termine delle procedure avanti alle competenti commissioni tecniche. A tal proposito non va confuso lo status di disabile grave con quello di invalidità civile, poiché si tratta di due condizioni e definizioni diverse. La circostanza che un lavoratore appartenga alle categorie protette e sia stato avviato al lavoro secondo la normativa di favore non comporta il diritto a non essere trasferito, che spetta, invece, solo ai lavoratori con disabilità grave certificata.
Il lavoratore con disabilità grave certificata ha diritto a non essere trasferito. Si tratta di una espressa limitazione del potere dell’azienda di trasferire i lavoratori da un reparto o da una unità produttiva ad un’altra, anche in presenza dei presupposti previsti dall’art. 2103 c.c.
Significa che anche se l’azienda dimostri che ha necessità organizzative e produttive tali da dover trasferire il lavoratore, non può comunque disporre il trasferimento. Le ordinarie esigenze organizzative, dunque, non possono in alcun modo giustificare il trasferimento del lavoratore disabile.
Vi sono, però alcune deroghe.
La prima deroga è rappresentata dall’ipotesi in cui l’azienda dimostri l’intera soppressione dell’unità produttiva (si pensi alla chiusura di uno stabilimento) e il trasferimento del lavoratore disabile rappresenti l’unica soluzione per evitare il licenziamento.
La seconda deroga è il trasferimento per incompatibilità ambientale: in questo caso, secondo la Cassazione, «alla luce di una interpretazione della L. n. 104 del 1992, art. 33, comma 6, orientata alla complessiva considerazione dei valori costituzionali coinvolti, il diritto della persona handicappata di non essere trasferita senza il suo consenso ad altra sede, mentre non può subire limitazioni in caso di mobilità connessa ad ordinarie esigenze tecnico-produttive dell’azienda, non è invece attuabile ove sia accertata la incompatibilità della permanenza del lavoratore nella sede di lavoro» (sentenza n. 24475/2013).
Innanzitutto, è bene chiarire che anche lo spostamento in un’altra «sede» di lavoro, anche all’interno dello stesso comune, è considerato trasferimento. Secondo la giurisprudenza, infatti, «il dato testuale contenuto nella norma, che fa riferimento alla sede di lavoro, non consente, infatti, di ritenere che questa corrisponda alla unità produttiva alla quale fa, invece, riferimento l’art. 2103 c.c.» e pertanto «il trasferimento del lavoratore di cui alla L. n. 104 del 1992, art. 33, comma 5 è configurabile anche nell’ipotesi in cui lo spostamento venga attuato nell’ambito della medesima unità produttiva, quando questa comprenda uffici dislocati in luoghi diversi» (Corte di Cassazione, sentenza n. 21670/2019). Con riferimento al caso del trasferimento del lavoratore che assiste un disabile, si assiste ad una apertura da parte dei Giudici, i quali – in alcuni casi – ammettono questa tipologia di trasferimento, a condizione però che l’azienda dimostri le effettive esigenze organizzative e che ciò non comporti una maggiore difficoltà nell’assistenza del familiare. Sulla base di queste considerazioni, si ritiene, dunque, che il trasferimento del lavoratore disabile non possa essere realizzato, nemmeno all’interno dello stesso comune, in tutti quei casi in cui ciò comporti una maggiore difficoltà del lavoratore nell’organizzazione della propria giornata lavorativa.