Va considerato come attività lavorativa quando il datore di lavoro ne stabilisce tempo e luogo di esecuzione
Alcuni lavoratori hanno presentato ricorso contro il proprio datore di lavoro chiedendo che il tempo da loro impiegato per indossare e dismettere gli indumenti da lavoro (“tempo tuta”) fosse riconosciuto come orario di lavoro e, di conseguenza, venisse retribuito.
In quali casi il “tempo tuta” rientra a tutti gli effetti nell’orario di lavoro e, come tale, deve essere pagato?
La Cassazione ha affermato che, per valutare se il tempo di vestizione possa essere considerato come attività lavorativa, e quindi vada retribuito, bisogna verificare se sia regolato nelle sue modalità dal datore di lavoro (eterodirezione) o se la scelta dei tempi e luoghi in cui cambiarsi spetti al lavoratore (Ordinanza n. 5437/2019).
La Corte, inoltre, ha indicato una serie di elementi di fatto che dimostrerebbero l’esistenza di eterodirezione, come l’obbligo di custodire le divise da lavoro presso l’azienda, il divieto di indossare tali indumenti al di fuori del luogo di lavoro e l’indicazione specifica da parte del datore dei tempi e luoghi di vestizione e svestizione.
Al contrario, se il lavoratore può liberamente scegliere dove, come e quando indossare la divisa, il “tempo tuta” non va retribuito perché non è vincolato alle regole stabilite dal datore di lavoro.
Nel caso in questione i lavoratori dovevano obbligatoriamente lasciare le divise in azienda e le operazioni di vestizione e svestizione non potevano mai avvenire presso le loro abitazioni, ma esclusivamente all’interno del luogo di lavoro, prima della timbratura del cartellino in entrata e dopo la timbratura in uscita.
La Cassazione, quindi, ha riconosciuto la sussistenza di eterodirezione da parte del datore di lavoro e, di conseguenza, il diritto dei lavoratori alla retribuzione dell’orario corrispondente al “tempo tuta”.