Con la risposta 626 l’Agenzia delle Entrate ha chiarito la disciplina per evitare la doppia imposizione per lo smart worker che lavora in Italia
Dall’inizio della pandemia sono migliaia i lavoratori italiani e stranieri che hanno deciso di fare ritorno (o ingresso) nel Bel Paese per lavorare, in modalità smart workingÈ una nuova modalità di svolgimento dell’attività lavorativa, introdotta dalla l. 81/2017 e caratterizzata dall’assenza di precisi vincoli di orario e di luogo di lavoro per il dipendente. More, a favore di aziende con sedi all’estero.
Ma a quale Stato si pagano le tasse? All’Italia o al Paese dove ha sede il datore di lavoro?
Dopo le indicazioni sui rimborsi per i costi della connessione internet e sui buoni pasto, l’Agenzia delle Entrate fornisce quelle utili per tutti gli smart workers.
Una cittadina italiana, iscritta all’AIRE, residente in Lussemburgo, ha lavorato alle dipendenze di una società lussemburghese. La lavoratrice è in smart working, in Italia, dall’inizio della pandemia. Ha chiesto all’Agenzia delle Entrate se le tasse sul reddito così prodotto debbano essere pagate allo Stato italiano oppure al Lussemburgo.
La maggior parte degli Stati ha adottato delle convenzioni per evitare la cosiddetta «doppia imposizione». Di che cosa si tratta? Sono degli accordi tra Stati per fare in modo che i redditi prodotti da un lavoratore non subiscano una doppia tassazione: una volta presso lo stato di residenza e un’altra volta nello Stato dove sono prodotti. Nel nostro caso, la convenzione servirebbe per evitare alla lavoratrice di vedersi tassare i redditi da smart working sia dall’Italia (dove ha lavorato), sia dal Lussemburgo (dove è residente).
L’Italia ha stipulato convenzioni contro le doppie imposizioni con centinaia di Paesi, facilmente consultabili nel sito del Ministero dell’Economia e delle Finanze.
Se si lavora in smart working all’estero, per capire a quale Stato si devono pagare le tasse, bisogna dunque analizzare che cosa hanno previsto le singole convenzioni.
Con il Granducato del Lussemburgo, in particolare, è stata sottoscritta la convenzione del 3 giugno 1981, ratificata con la legge numero 747/1982.
All’art. 15 è previsto che «i salari, gli stipendi e le altre remunerazioni analoghe che un residente di uno Stato contraente riceve in corrispettivo di un’attività dipendente sono imponibili soltanto in detto Stato, a meno che tale attività non venga svolta nell’altro Stato contraente. Se l’attività è quivi svolta, le remunerazioni percepite a tal titolo sono imponibili in questo altro Stato».
La richiesta di parere della lavoratrice ha riguardato proprio l’identificazione del «luogo di svolgimento della prestazione» nell’ipotesi di lavoro da remoto e come dovesse interpretarsi la convenzione tra i due Stati.
L’Agenzia delle Entrate con la risposta n. 626/2021 riprendendo il modello OCSE contro le doppie imposizioni, ha chiarito che per «luogo di prestazione» dell’attività lavorativa, anche nella particolare ipotesi dello smart working, si deve considerare «il luogo dove il lavoratore dipendente è fisicamente presente quando esercita le attività per cui è remunerato».
Che cosa significa? Significa che se si lavora in smart working, si pagano le tasse nello Stato dove è svolta la prestazione lavorativa, a prescindere dal fatto che a beneficiarne sia uno Stato estero.
Nel caso sottoposto al parere dell’Agenzia, la dipendente ha lavorato in smart working in Italia e quindi deve pagare le imposte allo Stato italiano.
Come in molte altre Convenzioni, anche quella tra Italia e Lussemburgo ha previsto alcune specifiche deroghe alla disciplina generale. Tra queste, la più importante riguarda il numero di giorni lavorativi all’estero. Se infatti, i giorni lavorativi all’estero non sono superiori a 183, anche per le prestazioni eseguite in altro Stato, si pagano le imposte nello Stato di residenza.
Nel nostro caso, tuttavia, la lavoratrice ha lavorato in Italia per oltre 270 giorni e dunque può trovare applicazione la speciale deroga: lo smart working è tassato in Italia.
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