I lavoratori fragili presentano maggiori rischi per la salute in caso di contagio. Vengono considerati tali sulla base di determinate patologie e ipotesi, a cui corrispondono precise tutele sul lavoro
Sin dall’inizio della pandemia, tutti gli studiosi sono stati concordi nell’affermare che il Covid-19 presentasse un più alto tasso di mortalità se a contrarlo fossero stati dei soggetti con un quadro clinico già compromesso da una o più patologie. Dati ufficiali alla mano, ad oggi, il 61% dei soggetti deceduti presentava tre o più patologie, il 22% due patologie e il 13% almeno una patologia. Sulla base di tali rilievi statistici, è stata predisposta una speciale normativa a favore dei “lavoratori fragili”.
Inizialmente, con i primi dpcm per fronteggiare l’emergenza, i lavoratori fragili sono stati individuati nelle persone con più di 55 anni e in quelle affette da patologie croniche o con multimorbilità, ovvero con stati di immunodepressione congenita o acquisita. Si raccomandava loro di non uscire dalla propria abitazione e di evitare i luoghi affollati dove non fosse possibile mantenere la distanza di sicurezza (dpcm 8 marzo 2020).
Oggi, i riferimenti alle patologie croniche, alla comorbilità e all’immunodepressione sono rimasti e vengono richiamati in numerose previsioni normative. Sulla scorta di tali considerazioni, unitamente all’elaborazione dei dati sull’incidenza e sul tasso di mortalità del contagio, l’Associazione nazionale medici d’azienda e competenti (ANMA) ha predisposto un elenco di ipotesi in cui il lavoratore può essere considerato “fragile”.
In particolare, si possono qualificare come “lavoratori fragili”, più a rischio in caso di contagio da Covid, i dipendenti che soffrono di:
Il solo requisito di età superiore ai 55 anni non è sufficiente perché un lavoratore sia ritenuto “fragile” e possa eventualmente accedere alle relative tutele. Si tratta di un aspetto chiarito dalla circolare del 4 settembre 2020 del Ministero del Lavoro e del Ministero della Salute, con cui si è ribadito che “il parametro dell’età, da solo, anche sulla base delle evidenze scientifiche, non costituisce elemento sufficiente per definire uno stato di fragilità”. È dunque imprescindibile analizzare lo stato di salute del soggetto, indipendentemente dalla sua età. In ogni caso, non basta una mera autocertificazione del dipendente, ma è necessaria una certificazione medica nella quale sia accertata la qualità di “lavoratore fragile”, sempre nel rispetto e con la protezione dei dati sensibili.
Per quantificare il rischio di contagio a cui è esposto ciascun singolo lavoratore, è stata elaborata una sommatoria in cui vengono considerati alcuni fattori, come l’ambiente lavorativo, il mezzo di trasporto utilizzato per recarsi al lavoro, la condizione territoriale in cui vive. Il risultato di questa somma viene moltiplicato per il fattore “P”, che rappresenta le caratteristiche personali, comprese le condizioni di salute, del soggetto.
Sì. Il lavoratore fragile può lavorare con diverse modalità che dipendono, in concreto, dalle mansioni eseguite e dal contesto aziendale.
Vediamole nel dettaglio.
Se non è possibile ricorrere allo smart working (anche attraverso adibizione a diversa mansione nella medesima categoria o area di inquadramento) e il contesto aziendale o lo stato di salute del dipendente non ne consentono l’impiego in presenza, il lavoratore non può fornire le proprie prestazioni perché “temporaneamente non idoneo”.
Fino al 28 febbraio 2021 l’ipotesi in cui il lavoratore rimanesse a casa inattivo era parificata al “ricovero ospedaliero”, sebbene egli non fosse né contagiato né in quarantena obbligatoria.
Il lavoratore fragile che non può essere impiegato né in smart working né in azienda, viene necessariamente messo in regime di degenza ospedaliera, con le tutele e il trattamento economico previsto dalla normativa ordinaria e dalla contrattazione collettiva.