Una lavoratrice ha impugnato il provvedimento dell’azienda, con il quale , dopo anni di turno spezzato, l’azienda decideva di assegnarle un turno con orario continuato.
Secondo la sentenza 31349 del 3 novembre 2021 della Cassazione la collocazione dell’orario di lavoro rientra nei poteri organizzativi dell’azienda e può essere decisa in modo unilaterale dal datore di lavoro quando l’orario è a tempo pieno. Devono però essere rispettati alcuni principi: buona fede e nessun intento pretestuoso o discriminatorio.
Il termine orario di lavoro ha due significati:
La disciplina dell’orario di lavoro è dettata dal decreto legislativo numero 66 del 2003: all’articolo 1 l’orario lavorativo è definito come «qualsiasi periodo in cui il lavoratore è al lavoro, a disposizione del suo datore di lavoro e nell’esercizio delle sue attività o funzioni».
La durata della prestazione lavorativa deve essere indicata nella lettera di assunzione o nel contratto di lavoro. Si tratta di un elemento essenziale del contratto. In mancanza di una espressa indicazione, si presume che l’orario sia a tempo pieno.
La durata dell’orario non può essere ridotta per decisione dell’azienda, senza un accordo con il lavoratore. Viceversa, la collocazione temporale della prestazione lavorativa spetta all’azienda e può essere successivamente modificata. È uno degli aspetti del c.d. ius variandi, ossia il diritto attribuito dalla legge al datore di lavoro di organizzare, nell’ambito dell’esercizio dell’impresa, le mansioni e il luogo dove deve essere svolta la prestazione lavorativa. In questo diritto vi rientra anche il potere distributivo, ossia la decisione sulla collocazione dei turni nella giornata o nella settimana lavorativa e la loro modifica nel corso del rapporto.
Il potere di modificare la collocazione del turno lavorativo non può essere esercitato senza limiti. Diversamente il lavoratore sarebbe in ostaggio delle decisioni imposte dall’azienda. Come tutti i rapporti contrattuali, anche il contratto di lavoro è soggetto ai principi generali dell’ordinamento, tra i quali spicca l’obbligo di buona fede.
Nel caso deciso dalla Cassazione, la buona fede è stata dimostrata dalla oggettiva necessità di adibire la lavoratrice ad un altro turno, dalla mancanza di pretestuosità nella decisione e dall’assenza di qualsivoglia intento vessatorio o discriminatorio. Sempre secondo i giudici della Suprema Corte, il controllo del Tribunale non si deve estendere alle valutazioni tecniche, organizzative e produttive dell’azienda: in altri termini, il Giudice non si può sostituire all’imprenditore nella valutazione delle ragioni imprenditoriali e produttive alla base del cambio di orario.
La questione cambia se si tratta di un orario part time. In questo caso, infatti, l’azienda non può modificare unilateralmente l’orario del lavoratore. Uno dei principi cardine del part time è rappresentato dal diritto del lavoratore di poter impiegare il restante tempo non lavorato in altre attività durante la giornata. Per questa ragione, l’azienda non può modificare unilateralmente il turno lavorativo, ma deve rispettare quanto pattuito al momento dell’assunzione e può modificare l’orario solo se ricorrono certe condizioni.
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